Nord Corea contro Stati Uniti (e Giappone e Sud Corea). Perché un conflitto nucleare planetario a partire dall’Asia è un’ipotesi assurda che fa sempre meno ridere.
Un missile balistico intercontinentale squarcia le nubi. La placida alba che tinge di rosso il cielo sopra la Corea del Nord viene sconvolta dal lancio di un Hwasong-14 che buca l’atmosfera e volando in orbita teleguidato da un satellite si abbatte su New York, dopo un viaggio di 10.770 chilometri. Palazzi e grattacieli, «simbolo delle forze imperialiste», bruciano e crollano uno dopo l’altro, mentre tutta Manhattan deflagra in un oceano di fuoco distruttore.
Non è la realtà, ma il sogno di un ingegnere nordcoreano riprodotto in un video di propaganda diffuso dal regime nel 2013. Oggi il filmato è quasi introvabile, visto che i tecnici comunisti non erano stati in grado di ricreare al computer l’Apocalisse nucleare che si abbatte sugli Stati Uniti, ma si erano limitati a inserire di frodo animazioni tratte dal videogioco Call of Duty. Activision, l’azienda produttrice del popolare sparatutto, ha rapidamente censurato il video per violazione del copyright. Le intenzioni bellicose di Kim Jong-un, però, non sono un gioco, e a Donald Trump sono bastati duecento giorni alla Casa Bianca per capire che sarà difficile, per non dire impossibile, spingerlo ad abbandonare le sue ambizioni nucleari.
Pyongyang ha un arsenale composto da una ventina di bombe atomiche e dal 1948, quando il paese inaugurò il suo programma nucleare sotto Kim Il-sung, portato avanti poi da Kim Jong-il e ora dal Grande successore, ha condotto cinque test nucleari e 113 test missilistici, violando ripetutamente più di una risoluzione Onu. Ogni lancio è accompagnato da minacce iperboliche di radere al suolo gli Stati Uniti e le sue «marionette», il Giappone e la Corea del Sud.
Fino a qualche anno fa, simili sparate erano ritenute, per quanto credibili, di difficile attuazione. A partire dallo scorso maggio, però, tre nuovi test hanno dimostrato che la Nord Corea dispone di missili balistici intercontinentali, sui quali almeno in teoria possono essere montate testate nucleari, in grado di raggiungere la base navale americana di Guam, l’Alaska e addirittura grandi città come Denver e Chicago. Tra teoria e pratica però c’è un abisso, e se nessuno può davvero stabilire con certezza il livello di avanzamento tecnologico delle armi nordcoreane, gli esperti ritengono che prima di una decina d’anni il regime comunista non sarà in grado di colpire il suolo americano con testate nucleari e anche allora solo con grande difficoltà.
Nonostante questo, il nervosismo cresce: Trump ha già capito che l’unico grande alleato che garantisce la sopravvivenza della Nord Corea, la Cina, non fermerà Kim Jong-un, perché non vuole e non può. Così il presidente repubblicano continua a ripetere che «ci penseremo noi», aprendo al rischio di una catastrofe nucleare. Al di là della reale capacità nordcoreana di minacciare il suolo americano, un attacco preventivo a stelle e strisce scatenerebbe ugualmente un’ecatombe. Pyongyang infatti tiene Giappone e Corea del Sud a portata di tiro e non esiterebbe a vendicarsi contro questi paesi. In particolare, 13.600 cannoni e lanciarazzi hanno sempre nel mirino i 25 milioni di abitanti dell’area urbana di Seul e secondo l’agenzia Reuters potrebbero uccidere 64 mila persone in sole 24 ore, facendo cadere sui tetti della capitale 1.000 tonnellate di esplosivo ogni 60 secondi. Secondo l’esperto Harlan Ullman, autore della teoria della guerra per il predominio rapido di un paese che ispirò l’invasione americana dell’Iraq del 2003, «in un quarto d’ora si arriverebbe all’equivalente della bomba di Hiroshima».
La speranza, dunque, è che nessuno faccia il primo passo e che, come sembra, il regime nordcoreano continui a concepire il suo programma nucleare come un’arma difensiva e non offensiva, un deterrente nei confronti di chi vorrebbe abbattere il regime più che un mezzo per sferrare un attacco che entrerebbe nei libri di storia ma che sarebbe, di fatto, l’ultimo gesto di un governo suicida prima della definitiva risposta congiunta di Washington, Seul e Tokyo. Kim, insomma, sembra volere mantenere il potere più che gridare al mondo: «Muoia Sansone con tutti i filistei».
Scenari da dodici milioni di vittime
La lunga ombra dello spauracchio nucleare però non si ferma nei dintorni del 38esimo parallelo. Si stende molto più a sud, sempre in Asia, fino a coprire i 225 mila chilometri quadrati che formano la regione del Kashmir, contesa tra India e Pakistan da più di sessant’anni. Oltre un milione di soldati si guardano tutti i giorni negli occhi lungo i quasi 3 mila chilometri di confine che separano i due paesi, ma è soprattutto lungo la Linea di controllo, la demarcazione provvisoria che divide le due nazioni, che si consuma da decenni un conflitto a bassa ma costante intensità.
Solo nel mese di luglio sono morte 11 persone per violazioni del cessate il fuoco tra le parti, che non hanno mai stipulato un trattato di pace. Dall’anno di indipendenza dalla Gran Bretagna, 1947, i due paesi si sono affrontati in tre guerre che non hanno portato a nulla, se non al quotidiano spettacolo delle danze provocatorie dei due eserciti sulla linea di confine (compulsare YouTube per credere). Se dovesse scoppiare un conflitto nucleare tra Islamabad e Nuova Delhi, secondo la Dia americana (Defense Intelligence Agency), potrebbero morire oltre 12 milioni di persone.
L’India vanta un arsenale nucleare composto da circa 120-130 testate, ma potrebbe produrne molte di più. Il Pakistan, dal canto suo, conta su 130-140 testate. Entrambi i paesi, al contrario della Corea del Nord, hanno già missili perfettamente in grado di colpire e secondo un recente rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute stanno lavorando per ampliare i rispettivi arsenali. La possibilità di un conflitto è meno remota di quanto si pensi, soprattutto se si considera che né India né Pakistan hanno mai firmato il trattato di non proliferazione nucleare. A fine luglio l’ex dittatore del Pakistan, il generale Pervez Musharraf, ha dichiarato di avere seriamente considerato la possibilità di attaccare con armi atomiche l’India nel 2001, dopo l’assalto del Parlamento indiano da parte del gruppo terroristico Jaish-e-Mohammad. Quella volta, ha aggiunto, solo il timore di una pronta risposta da parte di New Delhi lo convinse a fermarsi. E quando nel 2008 i terroristi pakistani di Lashkar-e-Taiba hanno fatto 174 morti a Mumbai, l’India è arrivata a un passo dall’invasione del Pakistan, evitata solo grazie all’intervento degli Stati Uniti.
Attacchi preventivi allo studio
Il passato scampato pericolo non è una garanzia per il futuro, soprattutto in un momento in cui la tensione tra i due paesi continua a salire. La dottrina nucleare indiana non prevede la possibilità di attaccare per primi, ma secondo il New York Times il colosso asiatico «sta pensando di autorizzare un eventuale attacco nucleare preventivo contro l’arsenale pakistano in caso di guerra». A novembre l’allora ministro della Difesa indiano, Manohar Parrikar, ha dichiarato che il divieto di lanciare un ordigno nucleare per primi «a mio parere andrebbe abolito». Islamabad del resto non ha mai escluso questa possibilità, e che cosa succederebbe se nell’unico paese musulmano dotato dell’atomica andasse al potere una delle decine di correnti jihadiste che destabilizzano la Repubblica islamica?
Come se non bastasse, l’alleanza sempre più stretta tra Cina e Pakistan e gli scontri sempre più frequenti tra Nuova Delhi e Pechino per l’altopiano conteso del Doklam, sull’Himalaya, rendono la situazione estremamente infiammabile. L’intervento dell’esercito indiano ha appena impedito alla Cina di terminare la costruzione di una strada a scopi militari nell’area e, nonostante le insistenti richieste del partito comunista, Nuova Delhi non ha ritirato le truppe.
A fine luglio il presidente cinese Xi Jinping, in occasione dei 90 anni dalla fondazione dell’Esercito per la liberazione del popolo (il più grande del mondo), ha supervisionato una delle più gigantesche parate militari mai organizzate, chiedendo ai 12 mila soldati presenti di «essere pronti a vincere ogni battaglia e sconfiggere qualunque esercito», perché «non cederemo mai neanche un pezzetto del nostro territorio». Dal momento che Pechino dispone di almeno 260 testate nucleari, e potrebbe senza difficoltà costruirne 1.500, non fa specie che i giornali indiani abbiano pubblicato la notizia in prima pagina.
Foto Anza
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