«Figlie di Auschwitz. Nel segno del ricordo»

Oggi in mostra a Roma, nell’ambito della VIII Edizione di «Ricordiamo insieme», l’ultimo lavoro del Maestro Georges de Canino, artista al servizio della Memoria della Shoah

Domenica 25 ottobre, nell’ambito della VIII Edizione di «Ricordiamo insieme» – cerimonia di commemorazione del 77° anniversario della deportazione dei cittadini romani ebrei, a cura di Tobias e Federica Wallbrecher, Sara, Rivka e Grazia Spizzichino, con la collaborazione di Progetto Memoria – si terrà presso l’Auditorium in via delle Fornaci 161 (Roma), a partire dalle ore 10, la mostra «Figlie di Auschwitz. Nel segno del ricordo», del Maestro Georges de Canino.

Nella sua attività quarantennale, Georges de Canino, ebreo romano d’elezione, ha dedicato opere alla mitologia, alle storie e ai personaggi della Torah, ai paesaggi romani, ai prigionieri di via Tasso, ai più giovani tra i martiri delle Fosse Ardeatine, a Salvo d’Acquisto, ma soprattutto ha messo la sua arte al servizio della Memoria della Shoah.

La mostra – che sarà presentata dalla prof.ssa Giorgia Calò, consigliere della Fondazione Museo ebraico di Roma – è dedicata a 10 donne deportate ebree: Edith Bruck, Alessandra e Tatiana Bucci, Marisa Di Porto, Ida Marcheria, Frida Misul, Fatima Sed, Settimia Spizzichino, Simone Veil, Milena Zarfati. Nel corso della sua vita de Canino ha conosciuto personalmente queste donne (tranne Simone Veil, prima donna ad essere eletta presidente del Parlamento europeo nel 1979), che hanno contribuito alla formazione affettiva e dell’impegno di de Canino a non dimenticare l’orrore dello sterminio degli ebrei.

«La memoria per me è una manna – mi racconta de Canino, raggiunto al telefono –, essa mi dà motivo di essere in lotta contro tutte le ingiustizie del passato e del presente presenti nel mondo. Quasi tutti i sopravvissuti, uomini e donne che ho incontrato, mi hanno insegnato a difendere l’umanità, la dignità, l’intimità di cui ogni persona è portatrice. Anche quando tutto crolla, quando ti strappano le carni, ti torturano, ti offendono, ti riducono ad un numero, quando ti dicono che non sei più nulla, che sei solo “un pezzo” – come dicevano i nazisti –, proprio allora, mantenere e alimentare la memoria è un imperativo ineludibile. Ricordi sono le atrocità subite, ma anche i profumi, la carezza di una madre, l’abbraccio di un amore, la nostalgia per le proprie origini, la propria città, le proprie strade. Questo è quello che i sopravvissuti e le sopravvissute incontrati mi hanno insegnato e hanno consolidato in me».

De Canino, nato nel 1952 a Tunisi in una famiglia ebraica per parte di madre, nel 1963 è costretto a emigrare in Europa. La sua formazione culturale è italo-francese. Diversi i maestri a cui Georges de Canino esprime il suo profondo debito di riconoscenza, tra gli altri: Rav Elio Toaff, Rav Yehuda Nello Pavoncello, Lello Perugia, partigiano e sopravvissuto alla Shoah, Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta al rastrellamento del Ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943. «Ma la mia più grande maestra, colei che mi ha insegnato a guardare intorno, dentro e fuori di me, è stata mia madre, Gilda Graziella. Fin da ragazzo ho cominciato a dipingere la deportazione, i campi di sterminio e questo preoccupava la mia mamma. Le ho sempre detto che dovevo ricordare perché mi accorgevo che alcuni tendevano a dimenticare, a non parlare, ad evitare questo argomento. Ancora oggi sento il dovere di dipingere la Shoah, ma non per celebrare la morte e la sofferenza, io celebro con la mia arte la dignità e la libertà su tutto, anche sopra la morte».

In mostra ci saranno i ritratti di 10 “figlie di Auschwitz”, 10 volti di donne catturati dalle pennellate del Maestro su cartoni da imballaggio. «Ho scelto il ritratto – racconta ancora de Canino – perché ogni essere umano ha una sua unicità, una sua fisionomia. E ho scelto dei cartoni di uso comune, ho pensato alla materia, con la sua assoluta precarietà, e al suo uso: i cartoni vengono usati e poi buttati via. Per i nazisti la vita degli ebrei non valeva nulla: i loro corpi sono stati usati, violati e poi buttati via. I 10 volti, dunque, ritraggono l’umanità di Auschwitz che non era più umana: nella “fabbrica della morte” le creature vivevano nel fango, perché considerati dei vermi, non potevano lavarsi, erano denutriti, sporchi. Questi ritratti sono consumati, graffiati dal carbone, hanno la cenere delle ciminiere addosso: quelle donne, giovanissime, belle, agli occhi dei nazisti non avevano più nulla per essere delle donne».

Accanto alle 10 “compagne” – come le chiama Georges de Canino – saranno esposte altre tre opere (sempre su cartone): una ricorda la stazione Tiburtina dalla quale, il 18 ottobre del 1943 alle due del pomeriggio, partì il treno piombato per Auschwitz; le altre due ritraggono persone già spersonalizzate, come scuoiate dai traumi della deportazione.

Come è possibile ricordare l’orrore e le atrocità che caratterizzarono la Shoah e non esserne sopraffatti? Come è possibile guardare al domani e ad un futuro che vuole aprirsi alla vita?

«Penso sia possibile – dice de Canino con la voce rotta dalla commozione – perché la vita è superiore a qualsiasi sofferenza. Posso testimoniare che quasi tutti i sopravvissuti hanno mantenuto la loro integrità vivendo, pensando, creando, lottando, amando. Settimia Spizzichino, alla quale sono stato legato in maniera speciale, mi diceva spesso: “Io voglio vivere perché devo raccontare. Le mie 40 compagne sono morte, ma io voglio vivere!”. Spesso mi preparava dei piatti tipici della cucina ebraico-romana che avevano dei sapori eccezionali, si capiva che cucinare era un atto di creazione, d’amore. E quando le chiedevo: “Come fai? Quando hai cucinato?”. Lei mi rispondeva: “La notte, perché sai, io non dormo; quando viene il buio, io entro di nuovo nel campo”. Tutti i sopravvissuti mi hanno raccontato la stessa paura, ansia, angoscia che provavano quando scendeva il buio della notte. Ed ora, arrivato a 68 anni, mi accorgo che anche io entro nel campo… non vivo la loro vita, vivo la mia vita, ma ho un dovere verso quanti e quante mi hanno reso partecipe degli aspetti più intimi delle loro esistenze. Attraverso la mia arte voglio ricordarli come se fossero ancora qui. La loro esistenza continua a vivere attraverso di me e attraverso quanti e quante tengono viva la memoria, non come ricordo del passato ma come la ferma volontà di resistere e lottare contro le ingiustizie del passato e quelle che ancora oggi mortificano e oltraggiano la bellezza del mondo creato da HaShém».


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