Riproniamo un commento pubblicato sul nostro sito già qualche mese fa, in modo particolare sul sul tema caldo del fine vita, che in particolare dallo scorso settembre è stato al centro del dibattito sociale e soprattutto politico italiano, con la pronuncia della Corte Costituzionale.
Accade, però, che a volte si parli di eutanasia o suicidio assistito senza capire cosa si stia dicendo di preciso. Vediamoci più chiaro. Visto che per essere “all’avanguardia” bisogna avere tutti le stesse idee (ma non è forse questa una forma di dittatura?) circa quelli che oggi vengono chiamati “diritti civili” (pena l’essere tacciati come retrogradi, oscurantisti e chi peggio ne ha, peggio ne metta), abbiamo pensato di riflettere sul significato di alcuni termini che identificano questi “diritti” di cui tanto si parla.
“Eu-tanasia” è un’espressione derivata dal greco e significa “dolce morte”. Oggi è usata per intendere il condurre a morte una persona, che lo desideri o no, con o senza il consenso dei congiunti. Ma il togliere la vita ad un essere umano, non è, piuttosto, da chiamare “omicidio”?
Ora, di questa morte si dice sia dolce. È proprio così? Numerose testimonianze mostrano che l’agonia di coloro a cui vengono somministrati farmaci letali è spesso terrificante. Quanto, poi, all’espressione “suicidio assistito” è anch’essa fuorviante. È evidente che non si tratta di un suicidio in cui una persona si toglie la vita e altri assistono inermi alla scena. È, piuttosto, un aiuto a morire, come nel caso in cui (lì dove il suicidio assistito è legale) si dà a un uomo che lo richiede il veleno con cui suicidarsi.
Sottilissima è la differenza con «l’ipotesi dell’omicidio del consenziente», come spiegavamo, «quando è il medico che uccide con un’azione (toglie il respiratore) o un’omissione (non dà più da mangiare e da bere), che pure è legale – per esempio in Italia, grazie alla legge sul biotestamento»: cambia materialmente la procedura, ma il medico ha la medesima responsabilità nell’uccisione e il paziente, appunto “;consenziente”, la medesima responsabilità della decisione suicidaria.
E, in tutto ciò, questi termini vengono continuamente associati alla libertà di morire con dignità. Muore, dunque, con dignità una persona che sceglie di porre fine alla sua vita, perché, secondo la legge, la sua vita non sarebbe degna di essere vissuta? Sceglie liberamente di morire chi sente che la propria vita è inutile, chi è depresso o gravemente malato? È libero di morire chi viene fatto sentire un peso? O non si sentirà, forse, un po’ obbligato a togliersi di mezzo?
Ecco, allora, che il vero volto di questi “diritti” esce allo scoperto e, forse, ciò che ci sembrava “all’avanguardia” scopriamo essere estremamente pericoloso, più di quanto avessimo immaginato.
di Luca Scalise | Provitaefamiglia.it
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