Fallimenti bancari, è un problema morale

img-_innerArtFb-_Palazzo_KochIl  caso delle quattro banche di fatto ora fallite – che malgrado ogni spavalda rassicurazione del premier pagheremo tutti quanti a caro prezzo – è venuto ancora una volta a ricordarci che la via d’uscita dalla crisi economica in corso è particolarmente ardua.

Proprio perché le sue radici sono molto più morali e culturali che economiche. Tanto più che, dopo secoli di separazione tra le scienze del fare e quelle del buon comportamento, diventa molto difficile tornare ad intrecciarle a fini di bene comune.

Si è giunti a questo “crac” che implica perdite per centinaia di milioni di euro a danno di decine di migliaia di persone, e quindi a danno dell’intera economia del Paese, anche per carenze di ordine strutturale: in sostanza per un eccesso di vigilanza pubblica formale sulle banche cui in effetti non corrisponde un’efficace vigilanza reale. Tali carenze sono un’eredità (ahimè finora mai rimessa in discussione) della “Prima Repubblica” ossia della Guerra fredda. Un tempo però tale situazione incontrava quantomeno dei freni culturali che oggi stanno purtroppo svanendo. Non ci riferiamo a freni derivanti da principi di ordine morale, che in ogni momento della storia devono fare i conti con la medesima fragilità umana, bensì specificamente a criteri di ordine culturale che oggi vengono meno nella misura in cui l’ateismo pratico diventa mentalità diffusa.

Restando al nostro tema facciamo in primo luogo riferimento all’idea di rischio. Quando e se la fiducia in Dio non è più un’esperienza vissuta, il rischio diventa qualcosa di psicologicamente insostenibile. Magari poi se ne parla, ma in effetti lo si esclude. Diventa comunque qualcosa che magari riguarda altri ma non se stessi. Non si spiega altrimenti perché, venendo al nostro tema, decine di migliaia di persone abbiano acquistato titoli che venivano offerti a condizioni più favorevoli proprio perché rischiosi, abbiano magari speso per acquistarli la totalità dei loro risparmi, e poi vivano come un fulmine a ciel sereno il verificarsi di un’eventualità negativa che il concetto di rischioipso facto implica. Può darsi che un certo numero di loro sia stato ingannato, e se ciò fosse chi ha ingannato ne deve adeguatamente rispondere, ma non può essere questo il caso della maggior parte. Un altro freno di ordine culturale che è venuto meno è quello della responsabilità. Nella misura in cui infatti passa l’idea che non ci sia più alcun principio di valore assoluto, nessuno è più responsabile di niente. In altri tempi gli amministratori di queste banche sarebbero stati sulle bocche di tutti, e magari per dovere  di giustizia se ne sarebbe dovuta rivendicare l’innocenza presunta fino a giudizio concluso. Oggi invece – a pochi anni da quando per molto meno sono stati messi alla gogna mediatica uomini politici in seguito riconosciuti innocenti –  l’opinione pubblica non solo non si indigna ma contro questi banchieri non alza nemmeno un dito.

All’ombra di tanta benevolenza questi restano ai loro posti praticamente indisturbati.  E non hanno nemmeno motivo di preoccuparsi troppo del loro futuro tanto più che se ne sta già occupando il governo. Il cosiddetto “decreto salva-banche” è infatti anche un “decreto salva-banchieri”. Non prevede infatti la decadenza degli organi amministrativi e di controllo delle banche oggetto del “salvataggio”. Grazie poi a un elegante sistema di rinvii ad altre norme, la legge di stabilità attualmente in esame alla Camera non consente ai risparmiatori vittime del “crac” di fare loro direttamente causa. Possono farlo soltanto i “commissari speciali sentito il comitato di sorveglianza, previa autorizzazione della Banca d’Italia”. Al riguardo si accettano scommesse.

di Robi Ronza | Riforma.it

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