In margine alla conferenza dell’Unione delle chiese protestanti del Vicino Oriente, al Cairo, un incontro con il pastore iracheno Farouk Hammo
(Albert Huber) Sessantenne dallo sguardo sereno e affabile, Farouk Hammo è un uomo contraddistinto da una vera dignità. Nato in un’antica famiglia cristiana della capitale, sono molte le prove che ha dovuto affrontare nella sua vita. Quando, ingegnere geologico, nel 1983 decide di studiare teologia, in piena guerra Iraq-Iran, dovrà attendere per un anno l’autorizzazione del presidente Saddam Hussein in persona per lasciare il suo posto di alto funzionario.Gli studi in teologia
Per i suoi nuovi studi, senza la minima borsa di studio, si esilia in Australia con la sua famiglia. Cinque anni dopo è alle prese con l’impossibilità del ritorno in patria. Dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990 l’ambasciata irachena in Australia chiude i battenti e non c’è modo di ottenere un visto per il rimpatrio.
Si stabilisce sulle rive del Pacifico e farà ritorno a Baghdad soltanto nel 2010, quando viene nominato pastore della parrocchia protestante presbiteriana del centro della capitale, una chiesa riconosciuta ufficialmente dallo Stato. Nel giro di alcuni anni la comunità di una trentina di fedeli che ha trovato al suo arrivo cresce fino a contare quasi un migliaio di parrocchiani.
La situazione attuale
“Viviamo in un periodo critico”, constata il pastore Farouk. “Anche se nella mia parrocchia i fedeli rifiutano l’esilio, due terzi dei cristiani iracheni hanno finito per fuggire dalla violenza, dal terrorismo, dall’insicurezza quotidiana su questa terra culla del cristianesimo. Ultimamente il mio ministero si svolge al telefono e su Internet: lancio appelli di conforto e di guarigione a ogni famiglia, giorno dopo giorno. Preghiamo molto insieme. Dopo un anno di interruzione le strade sono state riaperte e ogni settimana siamo un po’ più numerosi al culto”.
Che cosa può dirmi delle persecuzioni da parte dello Stato islamico nel nord del paese? “Le nostre famiglie hanno contatti con parenti vicino a Mossul e sono testimoni a distanza di omicidi non soltanto di cristiani, ma anche di persone appartenenti alla minoranza yazida. I pochi cristiani che si sono convertiti per restare sul posto sono elementi marginali della chiesa per cui la fede non contava…”
Ma è persuaso che la situazione stia per stabilizzarsi. Per lui la soluzione dipende dagli Stati Uniti e dall’Europa che, se non si muovono, “permetteranno l’instaurarsi in Iraq e in Siria di una situazione grave per molto tempo”.
Intercedete per noi
Alludendo alla maggioranza musulmana sciita in Iraq il pastore Farouk ritorna agli inizi dell’islam. Quando Ali, il figlio del Profeta, venne ucciso in combattimento, fu un cristiano a nasconderne la testa e a cercare poi la sua famiglia per restituirgliela. “Il fatto è rimasto nella memoria collettiva e qui gli sciiti ci rispettano molto”. E il pastore Farouk tira fuori il telefono per mostrare la sua foto accanto al primo ministro sciita Haider al Abadi che l’ha convocato nella sede del governo per avere notizie della sua chiesa. “Abbiamo pregato insieme”.
Quale messaggio trasmettere ai cristiani d’Occidente? “Voi avete qualcosa che noi non abbiamo e noi abbiamo un’altra cosa che voi non avete. Ma ciò che abbiamo in comune è la preghiera. Intercedete per noi, nella nostra prosperità come nella nostra disgrazia. Al giorno d’oggi le persone fanno di tutto tranne che pregare. E venite a trovarci, in qualsiasi momento, ora e in futuro…”.
Rappresentanti musulmani a una conferenza cristiana
Incontestabilmente l’Unione delle chiese protestanti del Vicino Oriente (FMEEC), con i suoi partner in Europa e negli Stati Uniti, in conferenza al Cairo, ha compiuto un passo coraggioso verso l’Islam. A dispetto della situazione disperata per le atrocità commesse dalle milizie jihadiste dello Stato islamico in Iraq e in Siria. La conferenza ha dichiarato di voler “continuare a operare in favore di una convivenza pacifica con i nostri vicini e non lasciare che sia la paura a guidarci, ma la fede”.
Invece di insistere sulle sofferenze sopportate, le chiese hanno posto l’accento sull’analisi critica del proprio ruolo oggi e in futuro.
Per la prima volta rappresentanti musulmani di alto rango sono intervenuti a una conferenza cristiana. “Gli adepti dello Stato islamico non sono musulmani, sono omicidi”, ha dichiarato il professor Muhammad Eddin Afifi, dell’università al-Azhar del Cairo, la rispettatissima autorità dell’islam sunnita. “Questa terra appartiene tanto ai cristiani quanto ai musulmani”. Una delegazione della conferenza e il gran sceicco Tayeb, rettore dell’università al-Azhar, hanno avuto un lungo incontro con il primo ministro egiziano Ibrahim Mahla. (da Réforme; trad. it. G. M. Schmitt)
Tratto da: http://www.voceevangelica.ch/
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