Non so se vi è mai capitato di sedere sulla panchina di un parco, magari sotto un sole primaverile, e di osservare i bambi che giocano o che camminano tenuti per mano dai loro genitori e all’improvviso chiedervi che cosa diventeranno in futuro, che tipo di uomini e donne saranno. C’è un mistero in loro che non è ancora rivelato… E chissà cosa avranno pensato Maria e Giuseppe osservando Gesù che cresceva, le parole dell’angelo… Il silenzio di Giuseppe, Maria che serbava ogni cosa nel suo cuore…
Giuseppe e Maria erano credenti fedeli e osservanti della Legge di Dio data a Mosè, dunque ogni anno facevano la salita, il pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua, memoriale della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto.
Quando Gesù, il figlio nato a Betlemme e ormai cresciuto con loro a Nazareth, compì dodici anni, i suoi genitori lo portarono a Gerusalemme affinché diventasse, attraverso un rito che si svolgeva al tempio, bar mitzwà, “figlio del comandamento”, cioè un uomo credente responsabile della sua identità davanti al Signore e in mezzo al suo popolo. Il ragazzo allora – come avviene ancora oggi tra gli ebrei – saliva sull’ambone dove si leggevano le Scritture, mostrava di saperle leggerle in ebraico come stava scritto e poi, interrogato dagli scribi, gli esperti della Legge, rispondeva, dando prova della preparazione che aveva ricevuto e dello studio in cui si era impegnato, alle domande riguardanti la volontà del Signore inscritta nella Torà.
Così fece anche Gesù. Poi Giuseppe e Maria, parte della carovana partita dalla Galilea, intraprendono il cammino del ritorno, finché alla sera si accorgono che l’adolescente Gesù non è con loro. Un figlio che si è perduto, o che comunque non è accanto ai genitori in viaggio al calare della notte, significa ansia, paura, e dunque ricerca affannosa, innanzitutto all’interno della carovana. Ma Gesù risulta un figlio che non c’è, che desta la domanda: “Dov’è?”, domanda ben più profonda di quanto possa apparire in quella circostanza di sofferenza e di paura. Dov’è Gesù? Giuseppe e Maria decidono allora di ritornare a Gerusalemme e di cercarlo in città, come un figlio che si è perduto o che se n’è andato dalla famiglia. Un figlio che si è allontanato dai genitori. Per tre giorni quella ricerca continua, e tutti noi sappiamo cosa significhi non trovare più qualcuno che amiamo, non sapere dove sia, dover fare i conti con la prospettiva di una sua mancanza definitiva. Tre giorni, il tempo dell’attesa secondo la tradizione ebraica, il tempo dell’angoscia che trova un termine, perché al terzo giorno Dio si fa presente… Dopo averlo cercato ovunque, ritornano infine al tempio, là dove Gesù aveva letto le Scritture, diventando un credente adulto, maturo, un vero figlio d’Israele.
Ed ecco, trovano Gesù proprio al tempio, dal quale non era uscito: era rimasto là dove dimora la Presenza di Dio. Egli è seduto tra i rabbini, gli uomini esperti e interpreti delle sante Scritture, intento ad ascoltarli e a interrogarli. E non c’è nulla di miracoloso o di straordinario in questo episodio, come spesso erroneamente è stato detto: Gesù non sta facendo un discorso ispirato che meraviglia tutti, ma si fa veramente discepolo dei rabbini, in primo luogo attraverso il loro ascolto e poi interrogandoli, per comprendere meglio ciò che il Signore dice a chi lo ascolta. Ascolto e domanda, i tuoi tempi dell’apprendimento, della crescita. Dovremmo dunque dire che questa pagina evangelica ci parla di “Gesù discepolo”, ragazzo credente, dotato di “un cuore che ascolta” e capace di porsi domande. Come Samuele cominciò a profetizzare a dodici anni, come Daniele a questa età disse una parola di sapienza, così Gesù manifesta che, anche nella sua crescita, quello che più cercava e più lo coinvolgeva era la presenza del Signore capace di “parlare” a chi si fa figlio dell’insegnamento e “servo della Parola”. Quindi, ecco dov’è Gesù! Non si è perduto.
I suoi genitori sono stupefatti, sorpresi, e la madre Maria lo rimprovera: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo!”. Gesù con semplicità replica loro senza biasimarli, ma facendo una rivelazione, che si esprime con una prima domanda: “Perché mi cercavate?”. Parole che certamente hanno raggiunto il cuore di Maria e Giuseppe, i quali hanno dovuto interrogare se stessi, i loro sentimenti e la loro fede riguardo a questo Figlio dono di Dio, nato per volontà di Dio e non per loro volontà.
Poi Gesù pone una seconda domanda: “Non sapevate che devo stare presso il Padre mio?”. Egli ha un Padre che è il suo vero Padre, da lui riconosciuto come tale: è Dio, e Gesù, ora che è stato messo al mondo ed è cresciuto, deve stare, rimanere presso il Padre, nel tempio che al suo cuore, il Santo dei santi, contiene la sua Presenza. Gesù deve stare presso il Padre, è una necessità per lui. Lungo tutta la sua esistenza Gesù obbedisce a tale “necessità”, non perché questo sia il suo destino, dal momento che egli conserva sempre una piena libertà, ma perché questa è la sua volontà e la sua missione: compiere ciò che Dio suo Padre gli chiede. Ma ogni volta che Gesù ha detto: “È necessario”, chi lo ha ascoltato non ha compreso. Qui si tratta dei suoi genitori, più tardi saranno i suoi discepoli…
In ogni caso, per compiere anche il comandamento dell’amore verso il padre e la madre, Gesù torna con loro a Nazareth e resta loro sottomesso. Ma ormai il segno è stato dato e verrà il giorno in cui essi comprenderanno, il mistero del Figlio si rivelerà compiutamente anche ai loro occhi, soprattutto Maria, che “custodiva tutti questi eventi-parole nel suo cuore”. Ma il tempo non è ancora adesso.
Ogni volta che si parla di famiglia, non si può evitare una certa dose di retorica. Ma Gesù ha solo parole di Verità per i suoi discepoli e, naturalmente, per noi. In questo brano, infatti, è radicalmente contestato ogni legame familiare che possa relativizzare il legame con il Signore e l’obbedienza a lui. Di fatto in questa pagina, come nelle altre che mettono in evidenza il legame tra Gesù e la sua famiglia, vi è una forte critica alla famiglia tradizionale, del suo come del nostro tempo, con i suoi codici, assolutamente contraddetti dal Vangelo. Dirà Gesù: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37).
Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà (Mc 10,29-30; Lc 18,29-30).
Gesù contro ogni forma di genitorialità? Niente affatto. Il nostro Signore ci dice che ogni genitore, così come ogni adulto che si prende cura di un bambino o di un ragazzo, è al servizio del mistero che in si deve rivelare in lui… e che questo mistero non gli appartiene perché è inscritto nel suo specialissimo rapporto con Dio. Voglio concludere queste povere parole con quelle ben più belle ed efficaci di un poeta che amo molto: Khalil Gibran.
I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa.
Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi.
E sebbene stiano con voi, non vi appartengono.
Potete dar loro tutto il vostro amore, ma non i vostri pensieri.
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete offrire dimora ai loro corpi, ma non alle loro anime.
Perché le loro anime abitano la casa del domani, che voi non potete visitare, neppure nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercare di renderli simili a voi.
Perché la vita non torna indietro e non si ferma a ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce viventi, sono scoccati.
L’Arciere vede il bersaglio sul percorso dell’infinito, e con la Sua forza vi piega affinché le Sue frecce vadano veloci e lontane.
Lasciatevi piegare con gioia dalla mano dell’Arciere.
Poiché così come ama la freccia che scocca, così Egli ama anche l’arco che sta saldo.
Di Davide Romano
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