Essere evangelici in un quartiere difficile

Salvatore Cortini, direttore del Centro sociale «Casa Mia – Emilio Nitti» a Ponticelli (Na), ci racconta le sfide di essere presenti in un territorio fortemente disagiato e deprivato

Che cosa significa essere presenti come evangelici in un’area della periferia di Napoli a più alto tasso di criminalità, disoccupazione, dispersione scolastica, disagio sociale e culturale? Ce lo racconta Salvatore Cortini, direttore del Centro sociale «Casa Mia – Emilio Nitti» a Ponticelli (Na), dove, tre anni dopo il sisma del 1980, sorse in quel quartiere un villaggio con 60 casette monofamiliari, di 64 metri quadrati, che servirono all’amministrazione comunale per liberare alcuni edifici scolastici, occupati in quel tempo dai terremotati, e che dovevano essere ristrutturati. Da allora l’intervento diaconale di quest’opera metodista è proseguito con impegno e passione.

«Il quartiere in cui operiamo è caratterizzato da povertà, ignoranza, violenza; si respira paura a causa della presenza di clan camorristici in guerra tra loro per il controllo del territorio, per la gestione del pizzo e dell’usura. Ponticelli è anche uno dei quartieri con il più alto numero di case occupate abusivamente. In un tale contesto, continuiamo a svolgere il nostro intervento sociale che chiaramente è cambiato rispetto agli esordi: oggi la nostra opera diaconale è sicuramente più professionale e i nostri interventi più mirati. Ma al centro della nostra attenzione ci sono sempre le famiglie con i loro bisogni e disagi. Famiglie che stanno vivendo un profondo cambiamento, a cui dovremmo prestare attenzione.

Un tempo, avevamo a che fare con famiglie fondamentalmente povere, oggi, quelle che incontriamo vivono un disagio non solo economico ma sociale e culturale: in genere, almeno uno dei due genitori (molti anche molto giovani) ha problemi con la giustizia o con la tossicodipendenza; i ragazzi sono arroganti, non riconoscono il ruolo degli adulti, non rispettano le regole, hanno comportamenti violenti. Se penso a tutto ciò che qui è stato fatto, mi dico che è stata una pazzia! Sono contento di averla fatta insieme a mia moglie Mena (diacona metodista, scomparsa prematuramente nel 2015, ndr) e ad altri fratelli e sorelle delle chiese evangeliche, non rinnego nulla; ma oggi non rifarei la stessa cosa. Dio in tante occasioni ha steso la sua mano su di noi e ci ha protetto. Nel post-terremoto ci siamo buttati in questo lavoro inconsapevolmente, anche con una buona dose di ingenuità; oggi la diaconia è cambiata: viene portata avanti con maggiore professionalità e competenza».

– Negli anni è cresciuta la collaborazione con altre realtà associative?
«Inizialmente abbiamo lavorato insieme alle realtà religiose cattoliche che operavano a favore delle famiglie e i minori; poi piano piano sono nate realtà culturali, di volontariato che rientravano nelle attività religiose. Oggi siamo di fronte a quella che io chiamo la realtà “dei supermercati del sociale”: tanti soggetti, anche conosciuti a livello nazionale, che arrivano sul territorio proponendo mille attività, anche molto innovative e creative. Il problema è che però spesso non si conosce realmente il territorio, si lavora in maniera autonoma, autoreferenziale e, quando si esauriscono i fondi, l’intervento sociale non ha continuità e i ragazzi e le famiglie sono lasciati soli. Occorre conoscere maggiormente il territorio per elaborare progetti che rispondano realmente ai bisogni della gente. Nonostante tutte le nostre fragilità, difficoltà, superficialità a volte, il nostro Centro sociale, insieme alla diaconia comunitaria che viene portata avanti dalla chiesa metodista di Ponticelli e al lavoro dell’ospedale evangelico Betania, è ben inserito nel territorio e riesce ancora a dare delle risposte a chi si rivolge a noi. Certamente dobbiamo sempre aggiornarci, avere nuovi strumenti di lettura della realtà in cui viviamo; in particolare siamo preoccupati per le giovani generazioni che guardano al futuro con smarrimento».

– Nel tempo è cambiata la testimonianza evangelica resa in questo territorio?
«Nel nostro modo di porci verso il prossimo abbiamo sempre avuto un atteggiamento che rifugge il proselitismo; certo, incontriamo persone che sono incuriosite e ci fanno domande sulla nostra fede, altre riconoscono che le nostre azioni trovano ispirazione dalla Parola di Dio. Proprio recentemente, un uomo quarantenne, che veniva al Centro sociale quando aveva 8 anni, nell’iscrivere i suoi figli all’attività di doposcuola che facciamo, ha detto: “porto i miei figli, perché da ragazzo ci sono stato bene: qui si parla italiano, non si dicono parolacce, e poi siete stati i primi che mi avete insegnato a leggere la Bibbia e a cantare le canzoncine di Gesù”. Siamo chiamati a seminare e non a sapere se e quando ci saranno i frutti. Tutto ciò che facciamo risponde alla vocazione ricevuta da Dio; è il rapporto intenso che viviamo con l’Evangelo che ci porta a essere presenti in luoghi difficili come questo quartiere, e che ci dà la forza e il coraggio di andare avanti nonostante le nostre fragilità».

https://www.riforma.it/it/articolo/2023/02/08/essere-evangelici-un-quartiere-difficile


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