ESISTE LA POSSIBILITA’ DI UNA “SOLUZIONE POLITICA ALLA SUDAFRICANA” ANCHE PER IL KURDISTAN E PER LA PALESTINA ?

Difficile ipotizzare a chi si dovrebbe attribuire il Primo Premio del “Campionato mondiale dell’Ipocrisia”.

Personalmente propendo per un onesto pareggio. Quello che emerge nel surreale scambio di accuse tra Erdogan (che paragona il premier israeliano a Hitler) e “Bibi” Netanyahu (che rinfaccia a quello turco il massacro sistematico a danno dei curdi) è la constatazione che in fondo hanno ragione entrambi.

Da più parti – oltre alla formula forse improponibile dei “Due Popoli e Due Stati – si avanza l’ipotesi di una “soluzione sudafricana”. Ossia di una convivenza tra israeliani e palestinesi in un’unica entità magari di stampo federale. Utopia allo stato puro? Non è detto. Anche il modello sudafricano appariva alquanto improbabile all’epoca di Botha e della repressione più efferata contro i neri. Si dirà che ai palestinesi manca un “Mandela”, ma anche questo non è vero. Almeno uno esiste, in carcere ovviamente. Quel Marwān Barghūthī che sta dietro le sbarre dal 2002. Oppure il comunista palestinese Georges Ibrahim Abdallah (esponente del FPLP) detenuto in Francia nel carcere di Lannemezan dal1984 (nonostante sia “formalmente scarcerabile” dal 1999).

Sicuramente candidabile anche un’altra esponente del FPLP, la deputata femminista Khalida Jarrar arrestata a Ramallah – per l’ennesima volta – in questi giorni.

Un altro “Mandela” poi è sicuramente il leader curdo Abdullah Öcalan (in carcere dal1999), sempre che sia ancora in vita.

Ovviamente non è che in Sudafrica tutto sia stato risolto con la fine dell’apartheid. Se è vero (come mi aveva spiegato Sol Jacob) che “le promesse di Mandela erano le sue speranze”, è anche altrettanto vero che in gran parte non sono state mantenute. La “corruzione endemica” dei vertici dell’ANC (una nuova “casta” di privilegiati) ha prodotto effetti devastanti per il Paese e soprattutto per le condizioni di vita di gran parte della popolazione. Come ha recentemente denunciato un militante storico dell’ANC, Mavuso Msimang. Tuttavia (fermo restando che si poteva e doveva far di meglio) l’esperimento sudafricano, il processo di riconciliazione tra due comunità “l’una contro l’altra armate” per decenni, rimane una delle poche, se non l’unica, uscita di sicurezza per una situazione come quella del conflitto israelo-palestinese. Ormai indescrivibile, ai limiti del genocidio.

Una auspicabile “soluzione politica” potrebbe avvalersi positivamente dell’altro “esperimento”. quello curdo del Confederalismo democratico già operativo in Rojava e – in parte almeno – nel Bakur.

Le complesse vicende storiche mediorientali (il “groviglio” zerocalcariano) hanno, apparentemente almeno, sospinto due popoli ugualmente oppressi e perseguitati come quello curdo e quello palestinese, su rive opposte.

Dove un autocrate come Erdogan si permette di rivestire i panni del difensore della causa palestinese mentre stermina metodicamente i curdi. E un altro personaggio impresentabile come Netanyahu talvolta si candida a potenziale sostenitore dei curdi (ma solo apparentemente, in ogni caso strumentalmente, sia chiaro).

Resta il fatto che – se pur su sponde talvolta opposte – curdi e palestinesi rimangono affratellati dalla comune condizione di popoli oppressi, umiliati e offesi.

E presumibilmente ben consapevoli di questa sostanziale affinità. O almeno questo è quanto emerge da una recente intervista a Cemil Bayik, uno dei fondatori del PKK e attualmente co-presidente del Consiglio esecutivo della Confederazione dei Popoli del Kurdistan (KNK).

“Quello che difendiamo per il popolo curdo – ha dichiarato – ugualmente lo difendiamo per il popolo palestinese”.

Premesso che “le politiche di guerra e genocidio” di Israele contro il popolo palestinese non sono una novità, ma si perpetuano ormai da decenni, Batik sostiene che “la mancanza attuale di soluzione non può durare all’infinito (…) e questa realtà non si può eliminare con dichiarazioni di guerra e perpetrando altri massacri, il genocidio”.

Fermo restando che “le forze della modernità capitalistica, le potenze globali e regionali, in particolare lo Stato di Israele, invece di risolvere i problemi in Medio oriente li aggravano”.

Se l’obiettivo principale di Israele rimane quello di “allontanare definitivamente i palestinesi dai loro territori storici” (come confermano gli attacchi a Gaza di questi giorni), ciò dipende anche “dalla mentalità statalista tradizionale”.

Ricordando e ribadendo che “il popolo palestinese non è mai stato antisemita, ma ha lottato contro lo Stato e la mentalità che crearono e perpetuarono l’occupazione e il genocidio e ha individuato la possibile salvezza nel superamento di tale mentalità”. Convinto inoltre che “poco a poco sta nascendo nel popolo israeliano un approccio diverso e che si sta prendendo atto della realtà”.

A sostegno di questa impressione, le proteste durate vari mesi contro l’amministrazione Natanyahu. Proteste che esprimevano la consapevolezza della priorità imprescindibile di una soluzione politica per la “questione palestinese”.

Batik ritiene che l’amministrazione Netanyahu stia “cercando di utilizzare le azioni di Hamas contro i civili per modificare questo atteggiamento del popolo israeliano.”.

Ed è fondamentale che “nonostante tutto questo bellicismo imperante il popolo israeliano mantenga una posizione a favore di una soluzione democratica”.

“La giusta causa del popolo palestinese – ha proseguito – gode del sostegno di tutti i popoli oppressi, dei movimenti socialisti, democratici e libertari” che rafforzano la lotta per una soluzione democratica (…). Invece l’atteggiamento degli Stati e delle forze sottoposte alla loro influenza ottiene l’effetto contrario, amplificando il problema e rendendo più difficile la soluzione. In quanto intervengono in base a interessi politici ed economici”.
Con un esplicito riferimento a Stati Uniti, Unione Europea, Turchia e Iran.

Come ha ampiamente analizzato Ocalan “in Medio oriente lo Stato è andato allontanandosi sempre più dalla società”. Inoltre “tanto gli Stati arabi che gli altri Stati regionali non posseggono una mentalità democratica. In questo contesto non è possibile affrontare correttamente la questione palestines , trovare una soluzione”.

Condannando energicamente il “brutale massacro in atto a Gaza”, Bayik afferma che “i popoli chiederanno conto a questi Stati e allo loro mentalità genocida”.

Tali Stati – sia a livello globale che regionale e nonostante le loro dichiarazioni – in realtà non sono amici né del popolo israeliano, né di quello palestinese. In quanto operano soltanto in nome dei loro interessi.

Ricorda anche che il popolo palestinese “è stato scacciato brutalmente dalle sue terre prima occupate e poi annesse. Milioni dei palestinesi vivono da decenni in esilio e questo si sta ora ripetendo a Gaza”. Dove è in atto un puro e semplice genocidio per cui non esiste alcuna giustificazione. Così come non esiste perquanto subisce il popolo curdo nel Rojava: “Nessun popolo dovrebbe essere costretto a lasciare la sua patria”.

Quanto all’attuale situazione del movimento palestinese, il problema non sarebbe rappresentato soltanto dalle contraddizioni tra Hamas, Fatah e le altre organizzazioni, ma piuttosto dalla debolezza, dalla frammentazione interna ai palestinesi (soprattutto in confronto agli anni sessanta e settanta). Conseguenza della repressione statale, ma non solamente.
Dovuta anche a “diverse ragioni ideologiche, politiche e storiche”. Tra cui non vanno dimenticate le responsabilità degli Stati arabi i quali proprio “a causa della loro mentalità statalista” non sarebbero in grado di fornire una soluzione adeguata.

Senza dimenticare che in Medio oriente gli Stati Uniti (ma non solo) hanno regolarmente appoggiato (in chiave “antisocialista”) le organizzazioni a ispirazione religiosa, arrivando addirittura a fondarle dove non esistevano. Alimentando in tal maniera la nascita dell’islamismo radicale, jihadista.
Una politica conosciuta in ambito NATO come “Cintura Verde”. Così la Turchia venne accolta nella NATO (e i suoi quadri militari addestrati dalla stessa) per essere utilizzata contro i movimenti popolari, sociali e democratici. La Turchia contribuì poi alla nascita e sviluppo di organizzazioni a carattere religioso che avrebbero svolto funzioni analoghe a quelle delle squadre della morte e dei contras in America Latina (indipendentemente dalle loro attuali dichiarazioni di opposizione a USA, NATO e Israele).

Questo sarebbe avvenuto anche con Hamas, fondata con lo scopo dichiarato di dividere, indebolire, “distrarre” e sostanzialmente sviare (detourner) dai suoi scopi originari (di autodeterminazione) il movimento palestinese. Quella che attualmente assume l’aspetto di una improponibile “guerra di religione” sarebbe quindi il risultato di “immense menzogne, di grandi errori”. In buona parte reciproci.

Mentre il primo ministro israeliano va in televisione per sostenere che quanto sta avvenendo era già scritto nella Tōrāh, il presidente iraniano all’ONU afferma che il Mahdi è ritornato sulla Terra.

Ovviamente dietro tutta questa ridondante propaganda fide si celano, molto prosaicamente, precisi interessi materiali.

L’esempio curdo resta valido anche per la Palestina. In particolare con quanto è avvenuto in Turchia dove si è realizzata un’alleanza democratica, un “Fronte”, tra il popolo curdo e le forze democratiche turche (femministe, ambientalisti, socialisti…). Oppure nel Rojava con il dialogo, l’alleanza tra popolazioni curde e arabe sulla base del Confederalismo democratico. E segnali in tal senso provengono recentemente anche dal Rojhlat (Il Kurdistan sottoposto all’amministrazione iraniana).

Esiste comunque il pericolo che tale conflitto assuma aspetti ancora più vasti, una “terza guerra mondiale” (in qualche modo già avviata, se pur in maniera frammentaria) per il dominio tra le diverse forze della “modernità capitalista”. Un conflitto per appropriarsi delle fonti energetiche, ldele rotte commerciali, della Terra stessa.

Utilizzando qualsiasi mezzo e senza scrupoli, come da manuale.

Gianni Sartori


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