Ha imparato l’ebraico per capire meglio la Bibbia
Il grande autore italiano non ha dubbi: “La chiesa non è la mia casa”. Ma ciò non gli ha impedito di imparare l’ebraico antico allo scopo di comprendere meglio le Scritture d’Israele. Nell’intervista, parla del suo rapporto col testo biblico e delle sue lotte politiche. Incontro con un’artista impegnato e di grande successo.
Che tipo di educazione religiosa ha ricevuto?
Quella di tutti i ragazzini della mia età, a Napoli, negli anni Cinquanta. L’ho seguita fino alla prima comunione, ma non mi piaceva. Le cerimonie, la messa, il tono di voce, la retorica, tutto era faticoso, pesante, insopportabile.
Come è avvenuto il suo incontro con la Bibbia?
È successo in un luogo nel quale non c’era nessun altro libro. Io viaggio con poco bagaglio. Quando mi sposto, da un luogo all’altro, non prendo mai un libro con me. Nell’estate del 1983 mi trovavo in un monastero piemontese. Avevo aderito a un’organizzazione cristiana di volontari che partivano per l’Africa e stavo imparando il kiswahili. Quando sono partito, quella volta ho messo nella mia valigia una grammatica ebraica.
Leggere l’Antico Testamento in italiano non le bastava?
No, ero curioso di conoscere la lingua che aveva reso possibile il passaggio dal politeismo al monoteismo, senza fare ricorso alle armi e con un vocabolario ridotto. Solo cinquemila parole, ma capaci di contenere un’energia formidabile. Ho scoperto l’ebraico antico come si scopre il nucleo atomico, il luogo dove si concentra tutta l’energia. Scoprire che in ebraico il verbo per esprimere il “servizio” reso a Dio è lo stesso utilizzato per parlare del “lavoro” dedicato alla Terra, o che il verbo impiegato per parlare dell’osservanza della legge divina è lo stesso usato per descrivere la “cura” per la Terra, apre delle prospettive che nessuna traduzione è capace di offrire. E ciò non è dovuto a una limitatezza del vocabolario o a motivo di una povertà dell’ebraico biblico, ma al fatto che nell’Antico Testamento la cura della Terra è veramente legata al servizio reso al divino, l’alto è trattato allo stesso modo del basso.
E il Nuovo Testamento?
La mia lettura dei Vangeli mi ha convinto del fatto che essi appartengono ancora all’Antico Testamento e che il Nuovo comincia alla morte di Gesù, con gli Atti degli Apostoli. Gesù mi interessa, amo le sue parole, i suoi gesti, il modo in cui si è difeso di fronte al tribunale, la sua rinuncia al potere, la sua capacità di trasformare il triste patibolo romano in uno strumento di salvezza, la sua esplorazione della forza di amare. Mi piace molto anche l’elenco di nomi che apre il Vangelo di Matteo. Ma l’Antico Testamento conserva la lingua originale, ciò che mi permette di risalire alla fonte, al nocciolo, mentre il Nuovo, scritto in greco, rinuncia all’aramaico. La lingua greca non ha nulla a che fare con il monoteismo, non scrive il nome del divino in maiuscolo e da per scontata la presenza di molte divinità.
Che cosa l’affascina della Bibbia?
La sorpresa di trovare una divinità che si manifesta attraverso la parola. “Ed egli disse” – “wayomer”, in ebraico -, è il verbo più spesso associato, nell’Antico Testamento, al divino. Non si tratta semplicemente di una parola inviata per mezzo di onde cerebrali, bensì di una vera e propria manifestazione fisica della divinità che parla. Senza quell’ “Ed egli disse”, la creazione non ci sarebbe. La creazione avviene per mezzo delle parole. Per uno come me, estremamente attento al vocabolario, la Bibbia è il luogo dove la parola raggiunge il massimo grado d’efficacia. Non ci si può sottrarre a questo. La parola agisce e fa agire a partire dal nulla, o quasi. Quando la divinità parla, prende un pover’uomo – altrimenti le cose sarebbero troppo facili – e lo spinge a fare cose inimmaginabili, come Geremia, ad esempio, il quale per giunta era molto giovane, o come Mosè, il quale balbettava.
Lei si identifica con quei personaggi?
Assolutamente no! Il mio Mosè è don Chisciotte e io mi identifico con il suo cavallo, Ronzinante. Mi sono trovato anch’io, senza peraltro averlo voluto, a battermi per molte delle buone cause donchisciottesche. Non sono però uscito di casa, a 50 anni, come il cavaliere di Cervantes, dicendo: “Andiamo a riparare i torti del mondo”. Mi sono trovato mio malgrado a battermi per alcune cause e ho capito che a volte le buone cause reclutano persone che non sono per nulla adatte.
In qualche modo, questo è tipicamente biblico!
Esattamente. Come dice il Talmud, “nessuno ti costringe a completare l’opera, ma tu non sei autorizzato a rifiutarti di portarla a termine”.
Malgrado la sua stupefacente conoscenza del patrimonio biblico, lei si tiene alla larga dalla Chiesa. Come mai?
La Chiesa non è la mia casa. Essa è la casa di chi vive un rapporto intimo con la divinità o crede in una vita dopo la morte. Non entro nei luoghi di culto, nelle chiese, nelle sinagoghe o nelle moschee, nemmeno come turista. Rimango fuori. La questione è se parlate con la divinità o se parlate della divinità. Essere credente, significa parlare con la divinità e avere con essa un’intimità che non ha nulla a che vedere con la cultura e la conoscenza. Gli analfabeti sono molto credenti e hanno un rapporto di grande intimità con il divino. Io non parlo con la divinità, io parlo del divino. Parlare della divinità alla terza persona significa avere nei suoi confronti la più grande distanza possibile. Non sono credente, non posso rivolgermi alla divinità. Parlo del divino come un qualunque teologo.
Quando passeggia per le strade di Roma, non le viene mai la tentazione di entrare in una chiesa, di accendere una candela?
Un tempo lo facevo, prima di conoscere la Scrittura. Da quando leggo le Scritture, non entro più in una chiesa. Sento che commetterei una violazione di domicilio se lo facessi. Io mi accampo accanto. Se dovessi esprimermi con un’immagine, direi che mentre la chiesa si trova “al centro del villaggio”, la divinità si trova ai bordi del mondo, sulla sua circonferenza. Non è possibile raggiungerla. Dunque, se la chiesa è al centro, essa si trova nel punto più lontano possibile dalla divinità, la quale si trova sulla circonferenza. Perciò se io sto accampato accanto alla chiesa, sono un po’ più vicino alla divinità, o forse meno lontano! Ma si tratta solo di un’immagine…
Che cosa direbbe oggi ai responsabili della Chiesa?
Ho molta ammirazione per l’attuale pontefice. Non avrei mai creduto che un giorno avrei ammirato un papa. E sono anche un ammiratore del presidente degli Stati Uniti. Sono cose che capitano. È il genere di miracoli che possono accadere nella nostra epoca. È il segno che una forza di umanità, capace di sormontare ogni resistenza, è all’opera.
Che cosa l’ha spinta a combattere in campo politico?
La mia infanzia napoletana, le lamentele di mia madre e i libri della biblioteca di mio padre hanno risvegliato in me la compassione, la collera e la vergogna. Dalla vergogna può nascere molto coraggio, più forte di quello che deriva dalla collera, perché quello è uno slancio che si raffredda presto. Dopo la guerra, mio padre ha cominciato a comperare dei libri che parlavano della sua epoca perché non aveva capito nulla di quanto era successo. Era stato un testimone, non uno spettatore. Uno spettatore vede lo spettacolo, e comprende di che cosa si tratta. Un testimone è un disgraziato sul quale si abbatte il mondo e cerca di sopravvivere. Dunque, mio padre voleva capire. Leggeva libri sulla Seconda guerra mondiale, sull’annientamento degli ebrei d’Europa, sul nazismo, il fascismo e quelle letture, unitamente ai racconti di mia madre, mi hanno spinto a reagire.
La lotta continua anche oggi?
Sì, ma con qualche differenza. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso facevo parte di un movimento d’opposizione. Oggi invece faccio il mio dovere di cittadino prendendo posizione in favore di lotte che accadono intorno a me. Metto le mie parole al loro servizio. Ieri lottavamo contro l’ingiustizia, oggi per il diritto alla salute. Allora lottavamo per il futuro, oggi lottiamo per il presente. Ci sono dei cantieri che disperdono dell’amianto nell’ambiente mettendo in pericolo la salute degli operai e della popolazione della Val Susa; inoltre delle compagnie petrolifere vogliono farci credere che rifiuti altamente tossici non siano altro che rifiuti ordinari e intanto fanno crescere il numero di casi di tumore… e noi, cosa dovremmo fare? Dovremmo forse tacere?
Lei si è recato più volte a Lampedusa. Che cosa dice a chi pensa di risolvere il problema dei migranti costruendo dei muri?
Dico a quelle persone che i migranti passeranno comunque. I flussi migratori non possono essere fermati. Chi sostiene di poter fermare il flusso della migrazione, si farà insultare dalle generazioni che verranno. È impossibile costruire delle barriere che impediscano ai migranti di raggiungere l’Italia. È un fenomeno che pur creando molti problemi non può essere contenuto.
Lei ha scritto che il perdono è impossibile e che il male è irreparabile…
Sì, l’offesa commessa è irreparabile. Il male lascia sempre una traccia che non si può più cancellare. Il perdono tuttavia è un’altra questione. Perché il Cristo, sulla croce, dice: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”, e non si rivolge invece direttamente a loro dicendo: “Io vi perdono?”. Perché chiede alla divinità di perdonare i suoi aguzzini? Perché lui ha già perdonato. Ma ciò non basta. È necessario che anche il divino perdoni. Il perdono deve venire anche dalla divinità. Per il credente, il perdono non è una questione che riguarda solamente l’offeso e l’offensore. Un uomo non può perdonare un altro uomo. Per la fede, è la divinità che deve perdonare ed è l’offeso che deve chiedere il perdono per l’offensore. Non il contrario.
È possibile vivere proteggendosi dal male?
Contro il male non ci si può difendere. Il male è radicato nel nostro essere, nella nostra condizione. Quando il divino creò un albero della conoscenza del bene e del male, fece un albero, con un unico tronco, un’unica chioma, un unico frutto. Se fossi stato io il giardiniere, avrei fatto due alberi: uno del bene e uno del male. Almeno non ci sarebbe stato il pericolo di confondere il bene e il male, no? (da La Vie Protestante Genève; intervista a cura di Heidi Zimmermann, Madeleine Turrettini e Emmanuel Rolland; trad. it. Paolo Tognina)
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