È la prospettiva più pessimista di uno studio pubblicato dal centro ricerca McKinsey&Company. Il futuro dipende dalla velocità con cui la tecnologia si svilupperà. I Paesi a sviluppo avanzato potrebbero risentirne di più. La Cina perderà 100 milioni di posti di lavoro (il 12%); gli Stati Uniti il 32%; la Germania il 33%; il Giappone il 46%. “Speranza e sfida”: gli shock tecnologici si possono superare, ma serve un nuovo modello di formazione adeguato ai cambiamenti. In futuro, più spazio alle “capacità umane intrinseche”.
Roma – Entro il 2030, potrebbero essere 800 milioni i posti di lavoro persi, sostituiti da macchinari automatizzati e intelligenze artificiali. È la prospettiva più drammatica tratteggiata dal rapporto “Jobs lost, Jobs gained: Workforce transitions in a time of automation” pubblicato per il mese di dicembre dalla McKinsey&Company, società internazionale di consulenza manageriale. Gli studiosi aprono tuttavia a prospettive positive, a condizione che i leader degli affari e della politica si impegnino a facilitare la transizione.
Gli scenari immaginati degli esperti si basano su un’analisi condotta su 46 Paesi a vari livelli di sviluppo economico, e in particolare India, Cina, Giappone, Messico, Stati Uniti e Germania. Secondo lo studio, la quantità dei lavori perduti dipenderà dalla velocità in cui i nuovi macchinari verranno sviluppati: da quasi zero a un terzo delle occupazioni.
Tuttavia, il rapporto aggiunge che le nuove tecnologie potrebbero creare lavori che al momento non esistono e non possono essere previsti: lo sviluppo tecnologico nel lungo percorso tende a creare nuovi lavori, come accaduto con le rivoluzioni industriali.
I lavori più a rischio potrebbero essere quelli fisici in ambienti prevedibili, come operare su macchinari o preparare cibo da fast food, e nella raccolta di dati, per la quale l’intelligenza artificiale ha minore margine d’errore. Diversamente, i meno interessati sono quelli che richiedono l’utilizzo di competenze e l’interazione umana. Nuovi posti di lavoro potrebbero essere creati nell’ambito della salute con l’invecchiamento della popolazione, e altre occupazioni potrebbero emergere dalla crescita economica dei Paesi in via di sviluppo e la “mercatizzazione” di lavori casalinghi in precedenza non pagati.
Secondo gli autori, fra 75 e 375 milioni di persone potrebbero dover cambiare categoria di lavoro e acquisire nuove competenze. In termini assoluti, la Cina è il Paese con il più grande numero di lavoratori che avranno bisogno di cambiare lavoro, fino a 100 milioni se lo sviluppo sarà veloce, il 12% della forza lavoro nel 2030. Ma sono i Paesi a sviluppo economico avanzato che potrebbero risentire di più del cambiamento: fino a un terzo negli Stati Uniti (32%) e Germania (33%), e addirittura quasi metà in Giappone (46%). Tuttavia, va menzionato che la forza lavoro giapponese dovrebbe ridursi di 4 milioni nel periodo preso in considerazione.
Per aiutare il mercato del lavoro a riequilibrarsi dopo lo “shock tecnologico” è cruciale che i governi facciano della transizione della forza lavoro e della creazione di nuovi posti di lavoro una priorità. Per gli autori, il problema è che la formazione al lavoro è ferma a un modello industriale, quasi immutato negli ultimi 100 anni.
“L’automatizzazione rappresenta speranza e sfida”, conclude il rapporto. “L’economia globale ha bisogno della spinta alla produttività e alla crescita che essa comporta, in particolare in un momento in cui le popolazioni che invecchiano rappresentano un peso alla crescita del Pil. Le macchine possono assumersi i lavori di routine, pericolosi o sporchi, e permetterci di usare a pieno le nostre capacità umane intrinseche. Ma per approfittare di questi benefici, le società dovranno prepararsi a una complessa transizione della forza di lavoro”. (MT)
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