“Questa Terra è la tua Terra, questa Terra è la mia Terra” declamava Woody Guthrie ( 1912-1967) caselli, aree industriali, basi militari e altre schifezze. Stando ai racconti di mia nonna Pina (da ragazza lavorò come mondina, sia a Grumolo che a Mossano), la lontra agli inizi del secolo scorso frequentava anche la zona delle Boche del Tesena. Lei la chiamava “sgora”, essere misterioso che trascinava in fondo al fiume i bambini discoli; forse una variante, più che della relativamente mite anguana, dell’aganis friulana. Fino ad un paio di decenni or sono, mi capitava di incontrare qualche anziano che si ricordava di mio nonno Augusto, un “obligato” (bracciante a giornata, contadino povero senza terra). Proprio in questo spicchio di terra retaggio delle bonifiche del 1300, aiutato da mio padre ancora bambino, el nono Gusto venne incaricato dal proprietario dell’abbattimento di alcuni morari e albare rimasti in parte ricoperti dal terrapieno del nuovo argine. Tutto “a man col pico, la baila e la cariola” racconta mio padre. In cambio del duro lavoro, ai miei familiari sarebbero toccate le rame alte e le soche estratte dal terreno. Il legname più pregiato, sia per lavori che per riscaldamento, quello del tronco e dei rami più grossi, ovviamente andava ai paroni. Per saperne di più sul “piccolo mondo antico” di San Piero, Deba e Casaleto suggerisco la lettura di “Mio padre partigiano” (un articolo pubblicato nel 2003) dove ho raccontato di un tentativo fascista di far ingurgitare a mio nonno l’olio di ricino (previa manganellatura di rito). La bieca operazione venne stroncata da mia nonna a colpi di forcone. Non fu invece altrettanto fortunato mio zio Attilio Fasolato (detto Tilio, come l’albero), operaio e sindacalista allo stabilimento Rossi di Debba. Oltre a subire l’ignobile umiliante violenza, restò quasi cieco da un occhio. Solo recentemente ho saputo che la stessa sorte era toccata anche ad un vicino dei miei, el scarparo Farinello, anche lui socialista. Costui trovò però il modo di vendicarsi. Fingendo di accettare umilmente la predica e le raccomandazioni per “comportarsi bene in futuro”, dopo il pestaggio acconsentì a offrir da bere alla squadraccia. Portò in tavola del cordiale a cui aveva aggiunto parecchie gocce di un forte lassativo. Ritornate a casa, le camicie nere dovettero immediatamente correre al cesso. All’intraprendente antifascista (in seguito ospite delle patrie galere) arrivò una lettera minacciosa che lo preavvertiva di una ulteriore visita non propriamente di cortesia. Ma i socialisti del luogo si organizzarono. Quando il camion della spedizione punitiva transitò per la Riviera Berica, i compagni vennero allertati, come era stato convenuto, dal suono delle campane di San Piero Intrigogna. Prontamente radunatisi, bloccarono la squadraccia all’altezza della Pontara tra Debba e San Piero e l’olio di ricino venne forzatamente ingerito dai componenti della squadraccia. Un piccolo gesto di resistenza di cui si era persa la memoria e che riscatta la popolazione locale, talvolta troppo umile e sottomessa al potere. E dopo quelli dei fascisti, sulla strada che da san Piero porta a Vicenza passando per Casale (all’epoca ancora strada bianca) passarono i camion statunitensi. Il mio primo incontro risale agli anni cinquanta. Abitavo a Casaletto, una contrada la cui parte più consistente era costituita dall’abitazione e dalle stalle dei Dalmaso, gli affittuari. In prossimità di una piccolo rilievo, el monteseo, recentemente devastato da alcune costruzioni e da un centro di addestramento per cani. I camion passavano sollevando la polvere e un nugolo di bambini correva loro incontro gridando “ciunga” (termine dialettale per indicare la gomma da masticare) mentre i soldati lanciavano sbrancà di chewing gum e qualche caramella. I ragazzini si accapigliavano rotolandosi per terra per strapparsi il misero bottino. Ricordo che me ne stavo appoggiato al portone e non partecipavo. Forse per timidezza, forse per dignità.In ogni caso provando vergogna per lo spettacolo “coloniale”. Tornando ai giorni nostri, a non più di 2-3cento metri dalla citata Pontara, troviamo gli storici ponti di Debba, sovrastati dalle case operaie e dallo stabilimento Rossi. Oltre a mia madre, vi lavorarono come operai quattro o cinque tra zii e zie. La sorella maggiore di mia madre, Marcella moglie di Tilio, vi entrò ragazzina, quando la fabbrica era ancora un canapificio (denominato canapificio Roi, risaliva all’800; poi linificio e infine cotonificio fino agli anni settanta). All’epoca del canapificio si lavorava immersi nell’acqua fredda corrente, con conseguenze ben immaginabili (gravi forme di reumatismi). Altre notizie storico-paesaggistiche sulla zona. A Debba, dove il Bacchiglione si divide in due rami, vanno segnalati il casello idraulico (l’abitazione del guardiano, nel dopoguerra un “compare” di mio nonno) e la conca di navigazione (costruita nel 1583) realizzata dalla famiglia veneziana dei Bonrizzo per consentire la risalita del fiume alle barche provenienti da Venezia. Senza dimenticare la briglia idraulica (conosciuta in paese come “le roste”, la cascata) e il mandracchio dove sostavano le barche in attesa del riempimento della conca (ancora identificabile la bricola di attracco).
Per finire, il ponte Geisler del 1885 con le travature reticolate in ghisa.
Questo per quanto riguarda Debba. Per san Piero Intrigogna, oltre alla chiesa e al campanile risalenti all’anno Mille (e alla piazzetta che corrisponde alla curtis delle monache benedettine), degna di nota la settecentesca villa Rubini, opera presumibilmente del Bertotti Scamozzi e di cui conservo le foto con i pilastroni ancora ornati da due grandi vasi decorati (poi, prima quello di sinistra, successivamente anche quello di destra, asportati illegalmente).
A questo punto mi piacerebbe concludere con uno stentoreo “No pasaran!” (riferito all’ingombrante viadotto), ma – dopo tante brutte esperienze – temo che mi (ci) toccherà anche questa.
Usque tandem?
Gianni Sartori
*nota 1: senza naturalmente scordarsi della versione polemica dei Nativi:
“This land is your land, but it once was my land,
Until we sold you Manhattan Island.
You pushed our Nations to the reservations;
This land was stolen by you from me.
Questa terra è la tua terra, ma un tempo era mia,
finché non ti abbiamo venduto l’isola di Manhattan.
Hai cacciato le nostre Nazioni nelle riserve,
questa terra tu la hai rubata a me”.
note: https://www.rivistaetnie.com/campanili-veneti-rosa-sgarabotto-75402/
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