C’è una figura, sovente ignorata ma onnipresente, che incarna meglio di qualunque altra l’essenza dell’italiano medio. Un personaggio che non conosce crisi, che si muove con destrezza nel mare torbido della burocrazia, sfuggendo alle secche del merito come un abile navigante. È il raccomandato, l’italiano modello. Colui che è sempre al posto giusto, anche quando non lo merita. Anzi, soprattutto quando non lo merita.
Si potrebbe dire che il raccomandato sia l’incarnazione perfetta di una certa filosofia tutta nostrana, che Aristotele avrebbe chiamato “ars opportunitatis”, l’arte dell’opportunismo. Un’arte che, a dispetto di ogni crisi economica o morale, sembra prosperare senza soluzione di continuità. “La felicità è l’essenza stessa dell’opportunità colta al volo”, avrebbe potuto dire qualcuno come Diogene, se fosse vissuto in un’Italia moderna, tra concorsi pubblici truccati e posti in prima fila per gli amici degli amici.
E non illudiamoci: la storia del raccomandato non è recente. Già nell’Italia medievale, con le sue fazioni e i suoi feudi, il raccomandato trovava il proprio posto grazie al signore di turno, colui che “poteva”. Da allora, la raccomandazione ha solo cambiato abito, indossando ora la veste della “segnalazione” – termine elegante e neutro, quasi tecnico. Ma la sostanza rimane: “Non conta cosa sai, conta chi conosci”.
Giuseppe Prezzolini, nel suo acuto “Codice della vita italiana”, scriveva: “In Italia il merito non ha merito”. E come dargli torto? Il merito è un’utopia per romantici e illusi. Il raccomandato, invece, è un realista. Lui sa come funziona il mondo, sa che il talento, l’intelligenza e la preparazione sono ornamenti superflui in un sistema che premia la fedeltà a un patrono, piuttosto che l’intraprendenza individuale.
Se cercate il segreto del suo successo, basta guardare alla sua arte nel compiacere: mai troppo brillante da far ombra al capo, mai così insignificante da essere trascurato. “L’uomo di successo è colui che sa quando e come piegare il ginocchio,” ci ricorda Machiavelli. “Non la virtù, ma la fortuna decide la partita.” E quale fortuna migliore del trovarsi un buon mentore disposto a spingerti in alto? Il raccomandato non ha bisogno di truccare la partita: sa che il campo è già inclinato a suo favore.
Tommaso d’Aquino, forse il più grande dei teologi, ci insegna che “la Grazia eleva la natura”. Ma per il raccomandato italiano, è la raccomandazione a elevare l’individuo. La Grazia divina ha ceduto il posto alla grazia del potente, e ogni ufficio pubblico diventa una sorta di cattedrale dove il beneplacito di un assessore vale più di ogni laurea o esperienza sul campo.
C’è chi sostiene che tutto questo non faccia che danneggiare la società, che soffochi il merito e avveleni il futuro delle giovani generazioni. Ma il raccomandato, con la sua pacata superiorità, risponde con un’alzata di spalle. “La corruzione non è che un mezzo di adattamento”, direbbe Max Weber, con un sorriso ironico. Dopotutto, in un mondo governato dal caos, è l’adattamento la vera virtù. E il raccomandato si adatta sempre.
Per Indro Montanelli, il raccomandato era “l’italiano che non cambia mai, l’uomo che sa aspettare che il vento giri a suo favore senza muovere un dito.” Un uomo, insomma, che incarna quella “furbizia” che abbiamo imparato a considerare una dote, piuttosto che un vizio. E come ogni furbizia, porta con sé la sua giustificazione morale: perché faticare, quando c’è un percorso più semplice? Perché cercare l’approvazione del mondo, quando basta un cenno del capocordata?
E allora, a che serve continuare a lamentarsi? Forse dobbiamo accettare che il raccomandato sia semplicemente il vincitore in questo gioco crudele chiamato Italia. “Non è l’uomo che deve cambiare il sistema, ma il sistema che cambia l’uomo”, direbbe Simone Weil, ricordandoci quanto sia sottile il confine tra sopravvivenza e servilismo.
In fondo, il raccomandato ci insegna qualcosa di molto semplice: l’Italia non è un paese per i migliori, ma per i più furbi.
Davide Romano
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