Ebola, il virus che terrorizza l’Africa

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img-_innerArt-_EbolaL’epidemia di ebola che ha colpito l’Africa occidentale sta allarmando tutto il mondo, e a ragione. Il virus di ebola, un filovirus, è considerato quanto a pericolosità un agente biologico di gruppo 4 e un agente di bioterrorismo di classe A. In altre parole, è uno dei virus più letali al mondo. Tuttavia, poiché si manifesta con sintomi subito debilitanti, a distanza anche solo di due o tre giorni dal contagio (10 in media), uccide rapidamente e presenta un elevato tasso di mortalità, il suo potenziale epidemiologico è ritenuto limitato, almeno quando la malattia fa la sua comparsa in territori scarsamente popolati e isolati. Se invece si verificano dei casi in località densamente abitate e servite da mezzi di trasporto rapidi, allora la malattia può diffondersi su territori estesi, oltrepassare i confini nazionali, raggiungere altri continenti.

È quel che è successo in Guinea: dalla regione Foréstière sudorientale, dove a gennaio sono comparsi i primi casi, il virus nella seconda metà di marzo si è esteso ad altre regioni, poi ha raggiunto la capitale Conakry, una metropoli di due milioni di abitanti, dove è stato accertato poche ore dopo che il ministro della sanità aveva annunciato che il picco endemico con tutta probabilità era stato superato. A portarcelo è stata una famiglia di ritorno dal funerale di un parente ucciso da ebola, residente nel centro sud del paese.

Dopo una serie di smentite, sembra ormai accertato che nei giorni scorsi casi di ebola si siano verificati in Liberia e forse anche in Sierra Leone e in Mali, tre stati confinanti con la Guinea. Per questo, per la vastità dell’area coinvolta, Medici senza Frontiere parla di “epidemia senza precedenti”, nonostante il numero per ora contenuto di contagi e di decessi: 122 casi e 78 vittime in Guinea, sette casi e quattro decessi in Liberia, 15 persone in isolamento in Sierra Leone e tre in Mali

Ma di parere del tutto opposto è l’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo cui quella in corso neanche si può definire un’epidemia, men che meno di proporzioni mai viste, dato che, così ha dichiarato Gregory Hartl, portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite, la comparsa della malattia è circoscritta “in una zona geografica limitata”. Sta di fatto che il Senegal ha chiuso le frontiere con la Guinea, il Marocco ha messo l’aeroporto internazionale di Casablanca in stato di allerta, l’Arabia Saudita ha sospeso il rilascio di visti a pellegrini diretti alla Mecca provenienti da Guinea e Liberia.

Il virus di ebola si contrae per contatto con sangue, organi e fluidi corporei di persone e di animali, ambienti contaminati e alimentazione con carni infette. Chi si ammala resta contagioso, dopo la guarigione, finché ogni traccia del virus non scompare dal suo sangue, il che può richiedere fino a sette settimane. Ma non sono in molti a sopravvivere. Il tasso di mortalità del ceppo più letale, lo Zaire, è dell’83%, quello del ceppo Sudan è del 54%.

In realtà, molto dipende dalle condizioni generali dei pazienti prima della malattia e, più ancora, dal tipo di assistenza ad essi fornita, come è stato dimostrato a Gulu, nel nord dell’Uganda, durante l’epidemia di ebola del 2000. Qualcuno ricorderà l’esempio straordinario di fede e carità cristiana fornito allora dal personale cattolico e anglicano, quasi tutto africano, del St. Mary’s Lacor, l’ospedale dei missionari comboniani. L’epidemia, causata dal ceppo Sudan del virus, aveva gettato nel panico la popolazione. La gente incendiava le capanne dei malati, rifiutava di seppellire i morti. Il personale degli ospedali fuggiva o rifiutava di occuparsi dei pazienti, lasciando che a farlo fossero i famigliari, se ne avevano il coraggio. Non così al Lacor. Il direttore sanitario, dottor Matthew Lukwiya, aveva radunato il personale e proposto di allestire un reparto speciale per gli ammalati di ebola, lasciando ognuno libero di decidere: una quarantina di dipendenti – portantini, infermieri, medici… – si erano offerti volontari. Per tre mesi avevano provveduto agli ammalati lottando contro il virus. “Qui i pazienti di ebola sono stati assistiti, all’ospedale governativo no – spiegava la caposala italiana del Lacor a emergenza finita – assistere un paziente vuol dire lavarlo, cambiarlo, imboccarlo e farlo bere se non ce la fa da solo, mettere e togliere la flebo. Tutto ciò al Lacor l’ha fatto il personale direttamente, al governativo l’hanno fatto fare ai parenti, internati anche loro in isolamento”. Alla fine dell’epidemia, su 396 ricoverati si contarono 150 morti, 15 dei quali tra il personale dell’ospedale, con un tasso di mortalità inferiore al 40%, rispetto al 68% e al 54% rilevati in due precedenti epidemie provocate dallo stesso ceppo del virus.

L’ultima delle vittime, all’ospedale di Lacor, era stata il dottor Matthew Lukwiya. Aveva 43 anni. Oltre alla laurea in medicina, vantava tre master e un diploma in amministrazione ospedaliera. Alla fine del corso in malattie tropicali seguito a Londra, gli era stato proposto di restare come docente, ma aveva preferito tornare in patria dove aveva scelto di esercitare non nella capitale, come la maggior parte dei suoi colleghi, ma a Gulu, all’epoca devastato dal Lord Resistance Army, uno dei più spietati gruppi armati del continente. Nel 1989 si era offerto come ostaggio quando i guerriglieri avevano tentato di sequestrare alcuni membri dello staff dell’ospedale ed era stato loro prigioniero per una settimana.

Fonte: http://www.lanuovabq.it/


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