E’ evidente: la Coalizione non combatte contro l’Isis

img-_innerArtFb-_isis_palmiraDopo la caduta di Palmira lo Stato Islamico controlla oltre il 50% del territorio siriano di cui un altro 20% è in mano alle milizie islamiste dell’esercito della Conquista appoggiate da Turchia, Qatar e Arabia Saudita. Considerando anche le aree in mano ai curdi il regime di Damasco controlla ormai solo un quarto del territorio nazionale, i porti e le sole frontiere con il Libano avendo perduto il controllo di tutti i valichi con Giordania, Turchia e Iraq.

Il fatto che oltre la metà della Siria, incluse le riserve di gas e petrolio, sia in mano all’Isis e un altro quarto sia in mano a salafiti, qaedisti e Fratelli musulmani la duce lunga circa le “alternative democratiche” al regime di Assad e conferma ulteriormente la vacuità dello sforzo militare della Coalizione che solo sulla carta sembra teso a combattere i jihadisti che invece sostiene e supporta indirettamente per indebolire Damasco.

L’Occidente inorridisce, ma solo a parole, all’idea che i miliziani di al-Baghdadi possano distruggere le rovine romane di Palmira come hanno fatto con quelle di Nimrod e altri siti archeologici in Iraq, ma nei giorni scorsi non un solo aereo statunitense, europeo o arabo dei 20 Paesi che hanno assegnato jet da combattimento alla Coalizione ha bombardato i jihadisti che marciavano su Palmira. Eppure sarebbe stato facile fermarli (l’Isis non ha forze aeree e possiede scarse capacità antiaeree) o almeno provarci considerando i tanti raid che vennero effettuati nei mesi scorsi su Kobane per sostenere la resistenza curda.

Ma la Coalizione non voleva certo aiutare le truppe siriane così come non intendeva appoggiare quelle irachene a Ramadi. L’Isis ha addirittura allestito una parata della vittoria nel capoluogo della provincia di al-Anbar “liberato”, svoltasi senza che un solo cacciabombardiere alleato intervenisse a disturbarla.

Le battaglie di Palmira e Ramadi offrono la conferma definitiva che la Coalizione a guida Usa non punta a distruggere lo Stato Islamico, ma ad assicurarsi che la guerra tra sciiti e sunniti duri ancora a lungo. La disfatta delle truppe irachene e le milizie sunnite a Ramadi ha infatti obbligato Baghdad a inviare milizie sciite le cui violenze sulla popolazione sunnita (come a Tikrit) accentueranno la guerra civile. Al tempo stesso l’offensiva simultanea su Palmira e Ramadi sarebbe stata inattuabile per una forza militare priva di copertura aerea contro un nemico (la Coalizione) che da 9 mesi detiene l’incontrastato controllo dei cieli.

L’intervento di Barack Obama, che ha negato che le due battaglie siano state una sconfitta ma solo “una battuta d’arresto”, smentendo al tempo stesso ogni cambio di strategia costituisce la migliore dimostrazione di come Washington, neo potenza petrolifera, persegua con determinazione la destabilizzazione dell’intera regione energetica che va dal Nord Africa al Medio Oriente.

Gli Usa e i suoi alleati arabi ed europei sono infatti rimasti a guardare mentre le milizie del Califfato avanzano a Ramadi e Palmira, probabilmente per metter in difficoltà iraniani e russi il cui sostegno a Baghdad e Damasco ha finora impedito il trionfo dello Stato Islamico e dei suoi sponsor più o meno occulti e che ora dovranno moltiplicare gli sforzi per puntellare Assad e al-Abadi. Non è un caso che il premier iracheno si sia recato a Mosca subito dopo la disfatta di Ramadi chiedendo aiuti militari urgenti in cambio di concessioni petrolifere. Al-Abadi punta sui russi, la cui coerenza nella lotta ai jihadisti è fuori discussione, ma non si fida più degli Usa e di un’Europa la cui politica estera è da troppi anni succube dei petrodollari investiti nel Vecchio Continente dalle monarchie sunnite del Golfo.

Anche sauditi ed emirati del Golfo non si fidano più di Obama poiché hanno compreso che l’obiettivo di Washington non è sostenere i suoi alleati regionali storici ma bilanciare un impegno minimo per mantenere la conflittualità il più a ungo possibile garantendo che in questa guerra non vi siano ancora per molto né vincitori né vinti. Poiché la migliore propaganda è la vittoria, dopo la presa di Ramadi e Palmira il movimento di al-Baghdadi può oggi vantarsi di aver mantenuto l’offensiva e di aver conseguito importanti successi militari dopo quasi un anno di guerra contro le principali potenze mondiali. Grazie ai suoi “alleati” della Coalizione l’Isis potrà continuare a reclutare combattenti e a raccogliere denaro per continuare il jihad.

Le prospettive militari indicano che in Iraq i jihadisti punteranno a prendere Habbanyah per completare il controllo della provincia di al-Anbar avvicinandosi nuovamente a Baghdad. In Siria l’Isis potrebbe puntare su Damasco, 200 chilometri a ovest, oppure su Deir ez Zor, l’ultima roccaforte del regime nell’est del Paese rifornita via terra proprio da Palmira e ora raggiungibile solo con aerei ed elicotteri.

Come riporta l’agenzia di stampa Nova, Joshua Landis, professore di studi mediorientali presso l’University of Oklahoma, ha spiegato a Voice of America che l’Isis cercherà di rafforzare la sua posizione a est prima lanciare l’offensiva verso Damasco e Homs a ovest. “Il prossimo obiettivo sarà presumibilmente Deir ez Zour”, ha spiegato.

La velocità con cui le forze di Assad sono capitolate in una città di importanza strategica come Palmira solleva seri interrogativi circa le reali capacità militari del regime dopo quattro anni di guerra. Palmira è la seconda grande perdita per Assad nelle ultime settimane dopo la caduta di Idlib, nel nord della Siria, ad aprile.

di Gianandrea Gaiani

da: lanuovabq.it/


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