Là dove la famiglia fu abolita

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img-_innerArt-_pol2La famiglia è sotto attacco. Ogni giorno si ha notizia di nuove iniziative volte a indebolirla, a screditare e intralciare chi la difende. Quando il 1° luglio il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato una mozione a sostegno della famiglia, in cui tra l’altro si impegna la giunta regionale a individuare una data per la celebrazione della Festa della Famiglia Naturale, fondata sull’unione di un uomo e di una donna, l’Arcigay ha definito la mozione “intrisa di odio” e quella per la famiglia una “festa abominevole”, un “atto barbaro”. Ci sono molti modi di attaccare la famiglia: sottrarle funzioni affidandole ad altre istituzioni, dissolverla, pretendendo che tutte le forme di convivenza e unione siano “famiglia”, svincolare la procreazione dal rapporto tra un uomo e una donna, renderle la vita difficile omettendo di sostenerla e imponendole degli oneri, diffamarla presentandola come un luogo di oppressione, discriminazioni e violenze, in cui si violano le libertà della persona. In questo momento nel mondo occidentale questi modi si stanno usando tutti.

Chi è ostile alla famiglia è convinto che senza questa istituzione la vita umana, la società sarebbero migliori. In effetti non ha modo di saperlo, almeno non ricorrendo a esempi di società prive di famiglia: a differenza di altre istituzioni, create man mano che le società diventavano più complesse, la famiglia infatti nasce con l’uomo, è sempre esistita. Ma in realtà un esempio storico c’è stato che deve far riflettere, soprattutto chi vede nella famiglia un ostacolo alla piena realizzazione della persona umana e dei valori di libertà e giustizia. È successo una volta che un piccolo popolo, neanche sei milioni di anime, si sia ritrovato dalla sera alla mattina, letteralmente nell’arco di poche ore, privato della famiglia: mariti e mogli, fratelli, genitori e figli separati, costretti a vivere in insediamenti abitativi diversi, spesso distanti tra loro, con la proibizione di comunicare in qualsiasi modo e severissime punizioni alla minima trasgressione.

Si poteva essere condannati a morte per aver raggiunto un famigliare di nascosto, di notte, sfuggendo al controllo, per stare con lui qualche minuto, portargli del cibo che sempre scarseggiava. L’unica eccezione era per i bambini molto piccoli, se non erano ancora svezzati, e quando risultava conveniente per qualche motivo che fossero le loro madri ad accudirli, ad esempio se si ammalavano. La condizione però era che le mansioni necessarie non diventassero occasione di emozioni, di manifestazioni d’affetto e tenerezze. Durante le riunioni – una sorta di gruppi di autocoscienza – organizzate per accelerare la formazione dell’uomo nuovo che si voleva far nascere in sostituzione di quello contaminato da valori sbagliati, una madre colpevole di aver trasgredito, se scoperta e denunciata, doveva allora ammettere il proprio errore (“è vero, ho abbracciato per un momento la mia bambina che piangeva, l’ho cullata, l’ho baciata, le ho cantato una ninna nanna…”), dichiararsi pentita e promettere di non sbagliare più.

In quella società senza famiglia, tutto si fece per annichilire le coscienze, ridurre gli uomini in uno stato di inerzia intellettuale e morale, cancellare sentimenti ed emozioni – amore, compassione, gioia, speranza, fiducia – reprimere ogni espressione di individualità. Fu persino proibito l’uso del pronome personale “io”: vietato dire “io voglio”, “io vado”, “io penso”… in altre parole, concepirsi appunto individualmente. Il pronome possessivo “mio” non ci fu bisogno di proibirlo: nessuno possedeva più niente. In meno di cinque anni, da un quarto a oltre un terzo degli abitanti di quel paese senza famiglia morirono: di stenti, di fatica, di fame, di malattie, di torture e sevizie, spesso inflitte dai bambini e dagli adolescenti trasformati in aguzzini spietati.  Molti furono giustiziati. Molti morirono di crepacuore e di disperazione.

Il bilancio dei morti oscilla tra 1,7  e 2,5 milioni, forse di più ancora: un genocidio. Il rifiuto della famiglia e, non a caso, della proprietà privata, in nome di un uomo libero, di una società giusta ed egualitaria, si era tradotto in un immenso, spaventoso attacco all’individualità, alla persona, alla vita. Il paese senza più famiglia – è superfluo dirlo – è la Cambogia dei khmer rossi, di Pol Pot, che governarono tra il 1975 e il 1979 imponendo un regime comunista totalitario, la Repubblica democratica di Kampuchea.

di Anna Bono

Fonte: http://www.lanuovabq.it/


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