Dimenticare è morire due volte

genocidio1Da Ginevra a Hollywood, il difficile compito di chi vorrebbe ricordare il genocidio degli armeni.(Fabian Kramer) Se quello commesso contro gli armeni è da considerare il primo genocidio del 20° secolo, allora uno dei primi campi di concentramento del Novecento si trovava a Deir-ez Zor, sull’Eufrate. In quel campo morirono decine di migliaia di deportati da tutta l’Anatolia. Chi sopravviveva alle massacranti marce attraverso il deserto della Siria, moriva di fame o di malattie. Il New York Times ha scritto che “Deir-ez Zor è per gli armeni ciò che Auschwitz è per gli ebrei”.

L’orrore siriano
Gli armeni hanno dovuto aspettare fino al 1990 prima di poter costruire, nella città situata oggi nella parte occidentale della Siria, un monumento in ricordo del genocidio. Ma dall’autunno scorso, la città è ridotta a un cumulo di macerie dopo che è stata investita dalle forze dello Stato Islamico che combattono contro le truppe del presidente Assad.
Quell’episodio getta una luce sinistra su uno dei molti punti oscuri della guerra civile siriana: di nuovo, decine di migliaia di cristiani armeni sono in fuga – stavolta dalla Siria, dalle regioni dove ebbe termine, cent’anni fa, la deportazione dei loro antenati -, da città come Damasco e Aleppo nelle quali era rifiorita la vita delle comunità armene che erano state sterminate dall’Impero Ottomano.

La memoria cancellata
Fu osservando dei bambini orfani al lavoro in una fabbrica di tappeti, a Damasco, che lo scrittore Franz Werfel trasse ispirazione per il suo romanzo “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, sul massacro degli armeni. Il libro procurò a Werfel, tra gli armeni, l’aura di un eroe nazionale. Ma nemmeno quel romanzo poté contrastare l’oblio che avvolse lentamente il ricordo della strage nell’opinione pubblica internazionale. Proprio osservando il destino del libro, è possibile comprendere come non siano necessarie bombe, né violenza per impedire che il ricordo permanga. Basta una pressione, moderata ma continua, per cancellare la memoria.

Il silenzio di Hollywood
L’opera di Werfel comparve un’ottantina d’anni fa. Da allora, innumerevoli stelle del cinema americano si lanciarono nell’impresa di trarne un film, da Clark Gable a Sylvester Stallone, da David Lean a Stanley Kubrick. Ma fino a oggi il film non ha visto la luce, a causa della prudenza americana nei confronti dell’alleato turco, il quale continua a negare la realtà del genocidio armeno.
Per lo stesso motivo, anche un altro soggetto – ideale come trama per un film di azione – l’operazione segreta “Nemesis”, messa in atto da giovani armeni, dopo la fine della Prima guerra mondiale, per uccidere i responsabili principali del genocidio, non è mai stato utilizzato dall’industria cinematografica americana.

La Svizzera cede ad Ankara
La pressione del governo turco ha convinto anche la Svizzera a non concedere l’autorizzazione per la costruzione di un memoriale del genocidio armeno. A Ginevra, dove da dieci anni esiste un progetto in tal senso (vedi articolo), le autorità continuano a frapporre ostacoli al progetto, adducendo a giustificazione la neutralità della Svizzera. Come se il riconoscimento di verità storiche potesse essere oggetto di mercanteggiamenti diplomatici.
Se la politica tace, le chiese devono parlare. Lo hanno fatto in passato, negli anni 1915-16 [e anche in occasione dei primi pogrom antiarmeni del 1894-96, ndr.], tramite alcune donne e uomini coraggiosi che hanno saputo dare voce [e portare aiuto, ndr.] ai perseguitati, affamati e deportati. È auspicabile che facciano lo stesso anche oggi e in futuro. (da reformierte presse, 17/2015; trad. it. P.Tognina/voceevangelica.ch)

da: http://voceevangelica.ch/

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