Dietro le sbarre, un volto; dietro un volto, una persona. Una persona che magari ha commesso errori gravissimi o compiuto azioni aberranti, ma che è pur sempre portatrice di un’immensa dignità.
In linea con questa visione – che altro non è che l’incarnazione dello sguardo misericordioso proprio del cristianesimo, secondo il quale è doveroso condannare il peccato, ma nello stesso tempo è importante agire per salvare il peccatore – la Fondazione AVSI e la Cooperativa Sociale Giotto hanno promosso per il 29 novembre, in Senato, un incontro tra i rappresentanti delle istituzioni e i fautori della metodologia brasiliana Apac – acronimo che sta per “Associazioni di Protezione e Assistenza ai Condannati” –, al fine di mettere a punto dei dispositivi per una detenzione efficace da inserire nel nuovo “piano carceri”.
Ma in che cosa consiste l’innovativo metodo delle Apac? Si tratta di creare dei centri di recupero gestiti da associazioni e imprese locali in comunione con i volontari della società civile e con gli stessi “recuperandi” – questo il termine che sostituisce la parola “detenuti” nel gergo Apac –, i quali assumono così un ruolo di protagonisti, in un’ottica socializzante e redentiva: a loro vengono infatti affidate le chiavi delle loro stesse celle e sono resi responsabili della sicurezza e delle fughe.
I risultati della sperimentazione delle Apac sono sorprendenti. Innanzitutto nei numeri dei “recuperandi” coinvolti: nel popoloso e disumano sistema carcerario brasiliano sono tremila le persone che vivono nei quaranta centri di recupero sparsi in tutto il Brasile nei quali non è vi alcuna presenza di armi e di guardie penitenziarie. In secondo luogo, stupisce come il metodo Apac abbatta il tasso di recidiva, sceso dall’85% al 15%, e questo esclusivamente in quanto i centri di recupero sono luoghi ricchi di umanità dove i “recuperandi” entrano animati dalla voglia di ricominciare una nuova vita. Infine, il lato sociale ed economico, che vede un complessivo miglioramento delle condizioni di vita delle persone incarcerate e un abbassamento di due terzi dei costi strutturali.
Nel frattempo, il sistema Apac si è già diffuso in forma embrionale in 23 Paesi nel mondo, diventando il punto di riferimento internazionale nel miglioramento delle condizioni di vita dei condannati e nel facilitare il loro reinserimento nella società.Quella brasiliana è dunque un’esperienza che rimette al centro l’umano, con le sue fragilità ma anche con le sue potenzialità. E proprio in virtù di questa sua caratteristica lo scorso 26 novembre la Commissione Europea ha scelto il metodo Apac come esempio da seguire nel corso degli European Development Days, la più importante piattaforma europea di dibattito sul tema dei diritti umani.
In Italia sono già presenti delle realtà che mirano a valorizzare le potenzialità dei detenuti: basti pensare all’attività della Cooperativa Sociale Giotto, che nella casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova ha fatto del lavoro la chiave di volta per l’ingresso dei reclusi in una seconda vita, pienamente vissuta; oppure si guardi al progetto di collaborazione nato a Pavia sotto l’impulso della Dott.sa Gloria Pellizzo tra il reparto di Chirurgia pediatrica del Policlinico San Matteo e un gruppo di reclusi della casa circondariale, i quali hanno messo a disposizione le proprie energie e capacità per rendere l’ospedale più accogliente per i piccoli pazienti e le loro famiglie.
È quindi accanto a queste realtà “umanamente eccezionali” che va a collocarsi la campagna di conoscenza del metodo Apac che la Fondazione AVSI sta portando avanti nella consapevolezza dell’importante contributo che questo sistema può offrire nella costruzione di una giustizia che abbia maggiormente a cuore la dignità delle persone detenute.
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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