Una recente intervista a Khaled Fouad Allam – studioso scomparso ieri -, sul fenomeno dei giovani occidentali che si arruolano tra le milizie dell’Isis.Sarebbero circa 3000 gli occidentali che combattono al fianco dell’Isis. Partono per la Siria per abbracciare la fede jihadista e combattono per lo Stato islamico. Il fenomeno riguarda sia occidentali convertiti all’Islam, sia giovani musulmani di seconda generazione: spesso questi ultimi hanno una formazione medio-alta e sono apparentemente integrati nei loro paesi. Luisa Niti ne ha parlato, due settimane fa, con Khaled Fouad Allam – scomparso ieri, a Roma -, docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste.
Che cosa spinge dei giovani musulmani che vivono in Occidente a cambiare la propria vita in modo così radicale? E che cosa non ha funzionato nel loro processo di integrazione nelle società occidentali?
È evidente che il processo di integrazione in questi casi non ha funzionato. Spesso pensiamo che l’integrazione obbedisca a una valenza di tipo politico: l’ottenimento della cittadinanza, il lavoro ecc. – che sono ovviamente degli elementi importanti -, ma in realtà l’integrazione sfugge alla dinamica politica, c’è qualcosa di molto sottile, di molto profondo. Nei meccanismi dell’integrazione c’è anche tutta la questione legata a una sfera di tipo psico-affettiva. In relazione a queste persone che sono di origine o di culture islamiche, in realtà si pone il problema della relazione fra Islam e Occidente, che è una relazione molto complessa. Ci sono dei buchi storici che sono pieni di cose mai confessate, di non detti, che impediscono realmente la comunicazione fra queste due aree di civiltà all’interno del Mediterraneo. Nel meccanismo dell’integrazione, per chi lo rifiuta e trasforma in patologia, c’è un divorzio fra memoria e storia. In altre parole, essere islamico significa non appartenere alla dinamica di una memoria condivisa in Europa. I curriculum dei terroristi sono interessanti su questo, perché spesso sono ragazzi brillanti a livello intellettuale, con capacità di lavoro ecc., però psicologicamente vivono in un altro mondo. Il jihadismo dà loro uno status che il mondo nel quale vivono non gli offre. E questo è un dramma, individuale ma anche collettivo. L’Isis lo sa perfettamente, e dice loro: guardate, voi siete francesi, italiani, americani, inglesi… guardate come vi trattano, non vi accettano, venite da noi, sarete dei jihadisti.
Professor Allam, lei ha recentemente pubblicato con l’editrice Piemme il libro “Il jihadista della porta accanto”, in cui parla di terrorismo globale. A suo avviso la strategia del terrore sta riuscendo nel suo scopo? Paura e insicurezza stanno crescendo fra i cittadini delle democrazie occidentali?
Sì, mi sembra evidente. Ultimamente, a Parigi, ho notato che i rapporti fra la popolazione francese autoctona e i francesi di origine magrebina sono molto tesi. C’è un clima di diffidenza che rende complicata la strutturazione delle società eterogenee e multiculturali. Lo si percepisce chiaramente anche a livello visivo: il centro di Parigi è pattugliato da gruppi di militari armati che passano da un quartiere all’altro e proteggono obiettivi sensibili. La situazione mi ricorda un po’ quello che ho visto da bambino, all’epoca della guerra d’Algeria.
Ma il mondo occidentale ha gli strumenti culturali per comprendere che cosa sta accadendo nei territori controllati dall’Isis?
Paradossalmente nell’Ottocento, all’epoca della colonizzazione, c’era una maggiore conoscenza di questa società, degli uomini, delle loro culture. I francesi, ad esempio, avevano creato gli uffici arabi, dove ufficiali e sottufficiali imparavano l’arabo, il diritto musulmano, il sistema sociale attraverso l’antropologia di tipo tribale, il clan. Tutto questo sapere è scomparso, oggi bisogna formare delle persone per poter afferrare una situazione che ci scappa di mano. Poi c’è un altro fenomeno sul quale insisto: si assiste oggi a un divorzio fra politica e cultura, e dunque il mondo dell’expertise è molto meno ascoltato perché la politica naviga seguendo altri criteri che sono legati al consenso e alla brevità dei mandati politici. Questo porta a gestire la situazione in funzione dell’emergenza, non c’è più una visione sulla lunga durata e questo è un handicap molto forte.
L’idea di un califfato che possa unire i musulmani nel mondo non nasce oggi, ma attraversa tutto il ‘900. Per quale motivo proprio oggi questa ideologia rinasce e aggrega gruppi del radicalismo islamico che erano antagonisti fra loro?
La questione califfale assume una valenza nel ‘900 perché il passaggio dal califfato allo stato-nazione è considerato, da una parte dell’islam politico, come una dichiarazione di sconfitta. Quel sentimento di sconfitta ha nutrito una sorta di revanscismo storico-politico che trova la sua assunzione nella rivendicazione di un ritorno al califfato.
Veniamo agli atti terroristici degli ultimi mesi, che hanno sconvolto l’opinione pubblica europea e non solo. A suo avviso, professor Allam, c’è stata una reazione chiara ed autorevole da parte del mondo musulmano europeo contro questi
gesti di violenza?
Non mi pare, anche perché non c’è un’autorità unica nell’Islam che è totalmente frammentato. Ci sono delle voci, però quelle voci – che condividono i valori dell’Europa o dell’Occidente – hanno pochissima visibilità. Ci vogliono dei meccanismi di integrazione molto forti, ma oggi questi meccanismi sono estremamente deboli. Facciamo veramente molta fatica e talvolta ci sentiamo molto soli di fronte a questo.
C’è però un Islam cresciuto nella democrazia con il quale poter dialogare?
Sì, però questo non ci deve far dimenticare che il salafismo è una parte dell’islam. Sono i musulmani stessi che devono emarginare, ridimensionare questa visione di un islam integralista e politico. C’è ovviamente una parte dell’islam – maggioritaria, ma che non ha voce -, che pensa che l’islam possa vivere nella democrazia. Però coniugare tutto questo è molto complicato in un mondo in cui tutto sembra diventare precario, tutto nasce e muore nello stesso momento, tutto sembra sfuggirci di fronte a dinamiche che sono più grandi di noi.
Per concludere, professor Allam, molti esponenti musulmani interpellati a proposito degli attentati, spesso si limitano ad affermare che “l’islam è una religione di pace”. A volte questa sembra una frase fatta, che non entra nel merito della questione. Lei che cosa ne pensa?
A me non piace la retorica che dice: l’islam significa, anche linguisticamente, pace. Così non facciamo alcun progresso. Occorre che i musulmani siano veramente sinceri e ammettano che ci sono degli aspetti dell’Islam che portano a una visione molto rigida, radicale e talvolta violenta della religione. Bisogna dire assolutamente la verità, altrimenti l’Isis potrà vincere e dominare una parte del mondo musulmano – e questo sarebbe un problema per il mondo intero. Da noi si dice più o meno così: “chi non vuol vedere l’alba, non potrà vivere realmente la giornata”.
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