Strappato da una bella vacanza e trascinato con la forza in una buca sull’Aspromonte, Alberto Minervini, un piccolo imprenditore abituato a vivere senza grandi privazioni, si trovò costretto a trascorrere un’esperienza davvero disumana. Inizialmente desiderava solo essere liberato per continuare la vita di ogni giorno, ma divenuto prigioniero del silenzio e della solitudine impiegò il tempo ad esaminare i valori più profondi della sua vita. Così fece una preghiera, a cui Dio rispose in un modo che cambiò per sempre la sua vita. Dal momento che sia la televisione che i giornali si sono occupati per mesi di questo caso, molti di voi ricorderanno alcuni particolari del sequestro. A tutti coloro invece che non conoscono questa vicenda, vorrei assicurare che i fatti raccontati sono tutti realmente accaduti, e i più significativi sono quelli che avvennero in seguito alla sua fuga. Avvenne intorno alla mezzanotte del 4 agosto 1988. Ero alla giuda di una vecchia Fiat 500; procedevo lentamente, perché la macchina non dava garanzie di affidabilità, e inoltre non avevo alcun motivo di premura. Mi trovavo a circa 700 metri dal centro abitato di Ardore, in Calabria, quando, attraverso lo specchietto retrovisore, notai la presenza di un’auto di grossa cilindrata, che procedeva tenendo accese soltanto le luci di posizione. Mi accorsi che, sebbene il tratto di strada lo consentisse piuttosto agevolmente, quella macchina non accennava a sorpassarmi. Con me c’era mio nipote Albertino, al quale dissi; “Strano! Dietro di noi c’è una macchina molto più potente della nostra; non capisco perché esiti tanto a sorpassare!” Non ebbi nemmeno il tempo di completare la frase, che mi trovai la strada sbarrata da quella autovettura. Da essa scesero improvvisamente due persone, che aprirono la porta della 500 e mi coprirono la testa con una specie di cappuccio, premendo la dura canna di una pistola sulla mia tempia. Con una certa facilità fui trascinato fuori e buttato nell’altra macchina; ero frastornato, non capivo cosa stesse succedendo. Per un attimo credetti di essere stato preso da solo, ma la voce di Albertino mi fece capire che era stato catturato anche lui. Fu proprio la sua presenza a darmi forza di accettare con rassegnazione quanto stava accadendo; perciò cercai di rincuorarlo; ” Stai calmo, Alberto, non ti preoccupare; vedrai che non ci faranno del male!” Mi resi conto che ogni mia reazione non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione e che, purtroppo, ero vittima di quello che consideravo il più crudele atto che si possa commettere ai danni di un essere umano: Il sequestro di persona. “Stai fermo, bastardo napoletano!”, gridò uno di loro. Dovevano essere in tre: uno al volante e due che provvedevano a immobilizzarci. Ci tenevano nella tipica posizione dei polli; stretti tra le gambe, con la testa curvata in avanti, sul collo sentivo una mano che per tenere fermo il cappuccio che mi teneva ferma la testa, mi stringeva la gola quasi sino a soffocarmi mentre potevo ancora avvertire la canna della pistola sulla tempia, mi resi conto dello stato di tremenda agitazione in cui si trovavano. Il sibilo delle ruote sull’asfalto, l’eccessiva inclinazione che l’auto subiva nell’effettuare le curve e la raccomandazione di stare più attento rivolta all’autista dal bandito che mi teneva stretto come in una morsa, mi fecero capire che la macchina correva in mode folle. Cominciai a sperare che l’auto si ribaltasse o che, passando davanti al Comando dei Carabinieri, questi potessero fermarci a motivo dell’eccessiva velocità, ma con mia profonda delusione m’accorsi che subito voltarono a destra e presero una strada per le montagne, e le mie speranze erano così del tutto svanite. Dopo aver camminato per decine di km per le montagne, incominciavo ad avere dolori ai piedi che incominciavano a sanguinarmi. Ma loro senza pietà ci fecero camminare per tutta la notte. La mia speranza e che lasciavano andare mio nipote, come poi avvenne e questo mi riempii di gioia, ma allo stesso tempo mi sentivo un nodo alla gola: la partenza di mio nipote aveva lasciato in me un enorme vuoto, fui assalito da un senso di avvilimento e di sconforto. In quei giorni era stato tutto per me. Ora, anche se mi sentivo depresso, avevo la speranza di approfittare di un momento di distrazione e fuggire dai miei carcerieri. Mio nipote fu lasciato sulla statale che porta a Platì.
I miei rapinatori avevano scambiato un piccolo imprenditore come me con un altro molto più grande di me. E per questo ammazzarono il basista. Ma vollero tenermi lo stesso cercando di ricavare quando più soldi possibili e poi mi avrebbero ucciso. E così passai dei momenti atroci, mi misero nelle buche sotto terra, sempre con il cappuccio in testa. Legato con due catene in 2 metri quadrati. Fui venduto ad altre bande che chiedevano soldi ai miei familiari, Ero completamente distrutto, senza forze e con gente che aveva un cuore di pietra. Avevo quasi 60 anni, e oramai incominciai a pensare che non avrei più rivisto mia moglie e i miei figli. Ero ormai rassegnato alla morte, e pensandola stavo quando per la prima volta incominciai ad invocare il nome di Dio. Signore! Signore! Aiutami, anche se sono solo un peccatore dammi la forza di uscire da quest’inferno. Così mi tranquillizzavo e riposavo più tranquillo. Fino a quando non so come, Dio mi aiutò ad aprire le catene con dei trucchi che avevo imparato da ragazzino. Alzai gli occhi al cielo e incominciai a piangere e ringraziare Dio, e così iniziai la correre dopo mesi che avevo vissuto come un animale selvatico. Incominciò così la mia fuga fra le montagne dell’Aspromonte, camminando per sentieri ostili con la paura di incrociare i miei aguzzini, anche se il buon Dio era con me. Finalmente raggiunsi un paesino, ma questo mi fece tremare quando mi dissero il nome “Platì”. Ero finito direttamente nella tana del lupo; infatti quello era il nome che del paese che avevo sentito nominare in occasione di altro sequestri! Comunque dovevo rischiare non avevo altra scelta e chiesi al Signore di guidare i miei passi. Avrei preferito comunque morire anziché far ritorno in quel buco maledetto, su quell’orribile montagna dove anche gli alberi possono sembrarti complici di quegli aguzzini. Anche se nel paese c’ era omertà e una tensione altissima, fui aiutato da un pastore di un gregge che mi diede dell’acqua e mi diceva di riposarmi, perché c’era un caldo pazzesco, e poi perché mi vide troppo stanco. Nel frattempo il pastore che sembrava il mio angelo custode chiese aiuto a dei muratori, nel quale imbarazzati non sapevano che fare. Allora uno di loro mi disse: “Ti aiuto io sono siciliano non aver paura, solo sdraiati sul sedile così la gente non ti vedrà”. Io avevo le catene spezzate attorcigliate al collo, con dei grossi catenacci sembravo un animale da macello. Mi fidai di questo giovane e mi misi sdraiato in macchina con lui. Ero molto preoccupato non sapendo dove mi avrebbe veramente portato, ma la mia paura finì quando vidi un cartello con la scritta CARABINIERI. Il siciliano mantenne la sua parola rischiando anche la sua stessa vita. Il pastore che era vicino al conducente bussò alla porta dei carabinieri, aspettando che questi aprissero e poi andò via. Ebbe un gran valore, anche se io penso che era un angelo che il Signore mi mise a disposizione. Sono “Alberto Minervini” dissi subito, sono scappato dissi al carabiniere di turno. Immediatamente mi tirò dentro e dopo un po venni aiutato in tutto. Mi dettero da mangiare, mi fecero lavare e avvisarono la mia famiglia che in nottata dello stesso giorno potetti riabbracciarla. L’abbraccio con i miei familiari mi fece capire tutta la loro sofferenza che avevano avuto per me, ma sopratutto quanto era stata grande la misericordia e l’amore del Signore. Credevo di dover morire per cui avevo chiesto a Dio la salvezza della mia anima. I giorni che seguirono non furono facili ed anche nelle piccole cose mi accorgevo quanto avesse influito su di me quella brutta esperienza; non volevo rimanere solo ed a volte, a tavola, dopo aver mangiato, portavo le mani alla testa come quando dovevo mettermi il cappuccio durante la prigionia. Solo il tempo avrebbe guarito queste ferite profonde nel mio cuore.
Volevo assolutamente dimenticare quell’esperienza, ma non volevo abbandonare la mia ricerca di Dio. Riconoscevo che era stato molto buono con me e perciò desideravo conoscerLo pienamente. Così andavo alla ricerca di quel Dio al quale mi ero rivolto durante la prigionia. Fui invitato dal prete della parrocchia ad andare a sentire la messa, e così feci ma mi sentivo sempre vuoto. Il mio cuore voleva di più, volevo sentire nell’anima quello stesso sentimento spirituale che mi animava durante il triste periodo del rapimento, quando invocavo il mio Dio affinché mi salvasse l’anima. Incominciai a gironzolare per le maggiori cattedrali di Napoli, ma questo non bastò a soddisfare la mia sete di Dio! Ero libero dovevo essere felice, eppure dentro di me si nascondeva una profonda tristezza; pensavo a quel giorno quando, sicuro di morire, non avevo cercato la libertà fisica ma quella spirituale; eppure ora non trovavo nessuno che mi portasse alla conoscenza di quel Dio che allora mi aveva risposto. Un giorno, scoraggiato dall’inutile ricerca, inginocchiandomi, pregai che il Signore mi mostrasse ciò che dovevo fare, gli chiesi di rivelarsi di nuovo, e la sua risposta giunse in un modo che non mi sarei mai aspettato. Eugenio, il mio primogenito, venne a raccontarmi che su invito di alcuni amici, era stato nella chiesa evangelica che frequentavano. Era rimasto molto entusiasta, non tanto per se stesso, ma per me, perché gli sembrò proprio di avermi trovato quello che stavo cercando. Mi disse che in quella chiesa si avvertiva la presenza di Dio. Dal primo momento in cui, accompagnato da Eugenio, entrai in quella chiesa, nella mia vita ebbe luogo un cambiamento e una trasformazione interiore. Ero preso da un’emozione nuova, mi regalarono una Bibbia che lessi avidamente mentre la gioia del Signore attraversava il mio corpo, la mia anima tutto me stesso. Ero felice è gioioso di aver finalmente incontrato il Salvatore della mia anima e di donare a Lui il mio cuore con gratitudine. Così andai A Cristo, come quel ladrone sulla croce, credendo semplicemente che Lui è l’Unico in grado di salvare i peccatori. Non pretendevo di meritare qualcosa da Dio né mi ritenevo migliore o più religioso di un altro, forse in passato avrei avuto simili pensieri, ma adesso sapevo di essere solo un peccatore bisognoso del Salvatore. Guidandomi nella fuga, il Signore mi aveva liberato da quelle terribili catene che per mesi mi erano sembrate il problema più grave della mia vita. Ma dopo mi ha donato una liberazione ancora più grande, perché eterna. Mi ha rotto quelle catene spirituali che continuavano a tenermi legato al peccato, quando ancora non sapevo che la via della vera libertà era Lui: “Gesù disse: “io sono la via, la verità e la vita. Ed è vero io l’ho provato nella mia vita.
Trascritto da La Manna Francesco – notiziecristiane.com
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