Di sicuro ognuno nella vita ha provato, vissuto la delusione al fallimento di un progetto, di una relazione, di un obiettivo. Nessuno è immune e ognuno ha avuto modo di reagire a modo suo. C’è chi ha tratto da esso uno stimolo, c’è chi da essi è caduto in uno sconforto. Ci si chiede quale ruolo può avere la fede, la fiducia nelle sconfitte e nei fallimenti? Certo in una società dove è forte il culto della perfezione, dell’Io grandioso e narcisista scontrarsi con la sconfitta, o il fallimento diventa segno di delusione e frustrazione.
Intanto è doveroso chiedersi il ruolo delle aspettative che una persona ha con se stessa e con gli altri, affinché possa dirsi sono delusa, ho fallito. Un emblematico riferimento lo si rintraccia nella parabola dei talenti (Mt 25,14-30). Padrone e servo entrambi hanno un’aspettativa a riguardo, il padrone sul compito dei affidato al servo a seconda delle sue risorse, e il servo sul timore della punizione. Un timore che sa di paura di un giudizio critico. La parabola esprime anche la conseguenza al timore di non essere se stessi. Quel timore che ingigantisce in se il senso della paura: «per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo (Mt 25). Paura che diventa il proprio schema di azione limitante (Riccardi. P., Psicoterapia del cuore e Beatitudini. Ed Cittadella Assisi, 2018)
Sono molte le relazioni genitori-figli, tra partner, tra allievo e maestro che segnano la relazione sul timore delle aspettative dell’altro. Ognuno ha delle aspettative nei riguardi dell’altro. Il genitore che desidera il determinato corso di studi per il figlio, il partner che desidera il determinato comportamento dall’altro. Il problema è che spesso la natura delle aspettative è un’esperienza soggettiva, uno schema di azione che deriva da una privazione. Il genitore che non è riuscito negli studi, inconsciamente si aspetta che il figlio ci riesca e questa qualità inconscia spinge ad emettere giudici e valutazioni sulle scelte del figlio. Similmente, nelle relazioni di coppia. Il partner che ha vissuto in una determinata famiglia, che ha avuto delle carenze affettive, inconsciamente vuole non far ripetere questo schema vissuto e si aspetta che la sua famiglia si ponga in modo diverso e, inconsciamente è spinto a comportamenti che possono essere delle vere e proprie aspettative rigide. Più volte capita di ascoltare un genitore affermare: “non voglio che mio figlio cresca come sono cresciuto io”. Una frase che spesso tradisce quella che è la vera vocazione dell’altro; essere se stesso (Riccardi, P: Ogni vita è una vocazione, per un ben ritrovato ben-essere, ed. Cittadella Assisi, 2015). Siamo sicuri che queste aspettative abbiano un ruolo educativo alla crescita? Queste spesso sono ostacolanti perché rischiamo di non tenere conto della qualità delle esperienze che deve fare un figlio, o di un partner nella relazione. Si rischia di non vedere il presente della relazione ma di considerare il prossimo come se fosse già nel futuro di quello che si desidera. Tipicamente pensiamo che crescere, essere se stessi, sia quello di mirare ad obiettivi e progettualità ma il crescere in esperienza vuol dire apprendere dagli errori e fallimenti propri. Bisogna fare diretta esperienza, come Giobbe, che alla fine delle sue peripezie, dalle esperienze vissute in relazione alle sue disgrazie e in relazione al dialogo con il Signore ne comprende la sua essenza al punto che afferma: «Ma allora ti conoscevo solo per sentito dire, ora invece ti ho visto con i miei occhi. Quindi ritiro le mie accuse e mi pento, mi cospargo di polvere e di cenere per la vergogna» (Gb, 42, 5-6). Ma si sa, dopo questa esperienza, Giobbe morì sazio, appagato, soddisfatto degli anni (Gb, 42, 17).
A questo punto è doveroso una riflessione. Il vero compito educativo passa attraverso il desiderio che l’altro sia se stesso e sia appagato e soddisfatto della sua vita di modo che si possa realizzare il principio cardine dell’antropologia cristiana dell’amare l’altro come se stesso (Mc 12,29-31).
Pasquale Riccardi D’Alise
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