Io, Gulshan Fatima, la figlia minore di una famiglia Sayed, musulmana discendente diretta del profeta Maometto attraverso l’altra Fatima, sua figlia, avevo sempre vissuto una tranquilla vita costretta nella mia casa, quasi reclusa, nella regione del Punjab, Pakistan. E ciò non solo perché ero stata educata secondo la purdah sin dall’età di sette anni nel pieno rispetto dei più rigidi dettami del codice islamico ortodosso sciita, ma anche perché paralizzata e quindi incapace di lasciare la mia stanza senza l’aiuto di qualcuno. Il mio volto era velato agli occhi degli uomini, fatta rara eccezione per i parenti più prossimi come mio padre, i due fratelli maggiori e mio zio. Per i primi 14 anni della mia debole esistenza i muri delimitanti il perimetro di un grande giardino a Jhang, a circa 250 miglia da Lahore, costituirono per me i confini del mondo. Fu mio padre a portarmi in Inghilterra – proprio lui che aveva sempre guardato con sospetto quegli inglesi che adoravano tre dei invece di un solo Dio. Non mi permetteva neppure di studiare la lingua degli infedeli durante le mie lezione con Razia, la mia insegnante, per paura che potessi in qualche modo essere contaminata da quell’errore ed essere così allontanata dalla nostra fede. Eppure decise di portarmi fin lì dopo aver speso una quantità enorme di denaro in patria nel tentativo di trovare una cura che giovasse alla mia condizione o il miglior consiglio medico. Fece tutto questo per amore, preoccupandosi della mia felicità futura; ma quanto poco sapevamo dei problemi e del dolore che attendevano, nascosti dietro l’angolo, la mia famiglia quando atterrammo all’aeroporto di Heathrow quel giorno all’inizio di aprile. Ancora oggi, nella mia maturità, mi basta chiudere gli occhi per vedere subito con la mia mente un’immagine a me cara: quella di mio padre, il dolce Aba-Jan; così alto e magro, sempre ben vestito nel suo perfetto abito nero dal collo alto fermato con bottoni d’oro, pantaloni ampi e un turbante bianco avvolto sul capo con della seta blu. Lo vedo così, quando da bambina, come suo solito, entrava nella mia stanza per insegnarmi la mia religione. Lo vedo in piedi accanto al mio letto, davanti all’immagine della casa di Dio, la Mecca, il luogo più sacro dell’islam, la Ka’aba, voluta secondo la tradizione da Abramo e restaurata da Maometto. Papà sfila il Santo Corano dallo scaffale, il luogo più alto in quella stanza, perché niente deve trovarsi al di sopra del Corano. Il mio nome in lingua Urdu significa “luogo dei fiori, giardino”. Io, una pianticella malata con un nome simile, ero veramente tenuta come quei fiori da mio padre. Lui ci amava tutti – i suoi due figli Safdar Shah e Alim Sham; le tre figlie Anis Bibi, Samina ed io. Sebbene l’avessi deluso una prima volta poiché ero nata donna e poi a sei mesi perché resa paralitica dal tifo, mio padre mi amava ugualmente o forse anche più degli altri. Non era forse stata mia madre stesa a lasciargli questo sacro compito di prendersi cura di me sul letto di morte? “Ti prego Shahji non sposarti di nuovo per amor della piccola Gulschan”. Queste furono le sue ultime parole prima di morire. E mio padre per amor mio così fece, non si risposò mai più. Eravamo in attesa del verdetto dello specialista inglese del quale mio padre aveva tanto sentito parlare in Pakistan mentre continuava la sua ricerca di un trattamento medico migliore. “Buongiorno”, disse una voce molto gentile e piacevole. Mani ferme tirarono su la lunga manica del mio abito e cominciarono a palpare il braccio sinistro molle. Passarono poi alla gamba sinistra anch’essa immobile. Passò un minuto e poi lo specialista si pronunciò. “Per questo caso non c’è cura, solo la preghiera” disse il dottor David a mio padre. Non c’era nulla da fare. Poi il dottore uscì e i miei occhi erano pieni di lacrime. Mio padre strinse la mia mano senza vita e disse sollecitamente “C’è un solo modo. Bussare alla porta celeste. Andremo alla Mecca come volevamo fare.
Partimmo alla volta della Mecca, l’autostrada a quattro corsie era efficiente. Carovane di taxi, camion, autobus correvano su di essa trasportando fiumi infiniti di pellegrini in quel viaggio di 45 miglia. Molti andavano a piedi e marciavano stoicamente per richiamarsi al viaggio di Abramo, quando si mise in cammino cercando il santuario di Agar e Ismaele. Arrivammo alla Mecca, gli orecchi erano pieni del suono di preghiere cantate, versetti del Corano e della dichiarazione: “Non c’è altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”. Eravamo in pellegrinaggio da un mese e era ormai tempo di tornare a casa. Mio padre mi guadò e mi disse: “Dio ci sta mettendo alla prova entrambi”. Papà disse ai miei fratelli e alle mie sorelle: “Dio non è un Dio ingiusto. Dobbiamo avere la pazienza di aspettare”. Due anni più tardi mio padre si ammalò e morì. Anche in punta di morte mio padre si fece pensiero di me disse: “Ho lasciato molte proprietà, potrai avere cento servi alle tue dipendenze per tutta la vita, abbi cura di te e non disperare. Io ero sulla sedia a rotelle china verso di lui. Ero distrutta. Dissi: “Padre non lasciarci. Abbiamo bisogno di te”. Rimase in quello stato, con il respiro pesante e lento per alcune ore, poi alle otto di mattina del 28 dicembre del 1968 morì mentre il suo amico maulvi recitava il Sura Ya Sin. Ero distrutta e molto depressa e incominciai a pensare al suicidio. Padre ti prego portami con te che senso ha la vita adesso senza di te. Chiusa in una stanza con meta corpo paralizzato. Ma come potevo suicidarmi? Impiccandomi non potevo. Avvelenandomi? E dove avrei preso il veleno? Volevo liberarmi da quel corpo pesante. “Voglio morire” dissi: “Non voglio più vivere”. Questa è la fine”. “Quale terribile peccato ho mai commesso per vivere in questo modo” singhiozzai. “Appena nata, ho perso mia madre. Poi sono diventata paralitica; poi è morto mio padre” Dio, “Gridai” dammi tu la forza te ne prego! Poi mi calmai e una voce basa e gentile mi sussurrò: “Non ti lascerò morire. Resterai in vita”. “Chi sei?” risposi: “Sono Gesù il Figlio di Dio. Leggi di me nel Corano nel Sura Maryam e mi troverai”. Il giorno dopo incominciai a leggere il Sura Maryam per cercare del Profeta Gesù, e mi misi a leggere: “E gli angeli dissero a Maria: Allah ti invita a gioire per la sua Parola. Il suo nome è Messia, Gesù, figlio di Maria. Sarà nobile in questo mondo e in quello a venire, e godrà del favore di Allah. Predicherà agli uomini sin dalla sua culla; sarà il primo tra gli uomini e condurrà una vita giusta…”… “Per volere di Allah darò la vista ai ciechi; guarirò i lebbrosi e risusciterò i morti”. Per anni avevo letto il Sacro Corano devotamente ed avevo pregato regolarmente, ma avevo anche gradualmente perso la speranza che la mia condizione fisica potesse cambiare. Adesso, invece, iniziavo a credere quello che il Corano diceva su Gesù, fosse vero. Credevo che facesse miracoli, fosse vivo e che poteva guarirmi. “Oh Gesù, il Corano dice che tu abbia risuscitato i morti e guarito i lebbrosi e fatto molti miracoli. Allora guarisci anche me”.
La mia speranza diventava sempre più forte. Poi una notte alle tre mi svegliai e vidi la camera illuminata. Inizialmente pensai che si trattasse della luce della lampada da notte. Poi la luce continuava a crescere in luminosità e splendore finché divenne più luminosa del giorno. Mi coprii il volto con il lenzuolo. Avevo paura. Ero terrorizzata. Pensai allora che il giardiniere avesse acceso la luce esterna per illuminare gli alberi per sorprendere i ladri mentre rubavano i manghi maturi oppure voleva controllare l’impianto di irrigazioni con il fresco della notte. Riemersi dalle lenzuola per guardare meglio. Tutte le porte e le finestre erano chiuse e anche le tapparelle; le tendine erano tirate. Mi accorsi allora che immerse in quella luce c’erano delle figure in abiti lunghi a pochi passi di distanza dal mio letto. Erano dodici figure in fila. Al centro ce n’era una, la tredicesima, più grande e più luminosa delle altre. “Oh Dio”, dissi, mentre il sudore mi bagnava la fronte. Abbassai la testa e dissi ancora: “Chi sono mai queste persone? Come hanno fatto ad entrare se tutte la finestre e le porte sono chiuse?”. Improvvisamente una voce disse; “Alzati! Questo è il cammino che cerchi da tempo. Sono Gesù, figlio di Maria, Colui che invochi. Eccomi, ti sto dinnanzi! Alzati e vieni da me!”. Scoppiai a piangere. Gesù, sono paralizzata; non posso venire; non posso alzarmi!”. Allora Egli disse: “Alzati e vieni da me! Sono Gesù!” e siccome esitavo, disse ancora una volta quelle parole ma continuai a dubitare e così mi comandò per la terza volta: “Alzati!” Io, Gulshan Fatima, costretta all’immobilità da 19 anni, sentii una forza fluire dentro le mie membra malate. Poggiai il piede sul pavimento e mi alzai. Feci alcuni passi di corsa e caddi ai piedi dell’Uomo della visone. Ero completamente immersa in una luce purissima che brillava come una luna e il sole messi insieme. Quella luce rifulse nel mio cuore e nella mia mente attraverso il quale emanava un raggio di luce che andò a posarsi sui miei piedi al punto che l’abito verde appariva bianco. Disse: “Io sono Gesù. Io sono l’Emmanuele. Io sono la Via, la Verità e la Vita. Io sono il Vivente e sto per tornare. Da oggi tu sarai mia testimone. Ciò che hai visto con i tuoi occhi, questo devi portare al mio popolo. Il mio popolo è il tuo popolo. Tu devi rimanermi fedele e portare questo messaggio al mio popolo”. Poi aggiunse: “Devi sempre mantenere questo abito e il tuo corpo senza macchia. Dovunque andrai, io sarò con te. Finalmente riuscivo a camminare come una persona normale. Gesù mi aveva salvata e chiamata ad essere sua testimone. Tutta la mia famiglia si alzò e quando mi videro camminare rimasero senza parole. Finalmente potevo fare il giro per casa senza la sedia a rotelle. I miei fratelli erano felicissimi, tanto che facemmo festa. Ma quando mi domandarono come fosse potuto succedere, gli raccontai la verità. Dissi “Gesù mi ha guarita”. I silenzio cadde sui presenti, e mio fratello più grande disse: “Tu sei confusa chi ti ha guarita è stato Maometto”. Ero triste perché pensavo che almeno i miei familiari fossero contenti per me, per la guarigione. Ma una gran guerra si stava scatenato contro di me. Ma io ero forte, avevo il Signore Gesù che mi disse: “IO starò sempre vicino a te e non permetterò che nessuno cosa ti faccia del male, solo resta fedele alla mia parola. Da quel giorno dovetti andar via da casa e mi rifugiai in una casa chiesa, metodista. Lì conobbi l’amore cristiano che il pastore Khan e sua moglie mi diedero. Ebbi una Bibbia dove ogni giorno divorai la Parola di Dio, e poi fui battezzata nella loro casa.
Un giorno mi arrivò una lettera da mio cognato il marito di mia sorella Anis, dove diceva che mia sorella era gravemente ammalata, e prima di morire voleva vedermi. Mi consigliarono di non andarci perché la mia famiglia stava tramando di uccidermi. Io pregai Gesù e andai lo stesso. Mentre ero nel taxi avevo il cuore che mi arrivava alla gola, non sapevo se era tutto vero o cercavano di uccidermi, come aveva detto il fratello Khan. All’improvviso senti la Sua voce dolce e gentile: “Anis, non è morta sta solo dormendo”, sussurrai: “Signore sei tu?” “Sì sono io Gesù, te lo detto non temere solo abbi fede”. Fui inondata da una pace immensa. Quando arrivai a casa mia sorella era già morta. Mi inginocchiai e incominciai a pregare a Gesù. Poi mi alzai e dissi: “Perché piangete? Non è morta, è viva!”. Ci fu una costernazione generale. “E’ pazza! Mettetela in un’altra stanza, rinchiudetela!”. Così mi chiusero in una stanza da bagno vuota. Cominciai a pregare di nuovo a Gesù. Poi la sera una ora prima che portassero via mia sorella mi fecero uscire e accomodare vicino alla bara. All’improvviso mia sorella mosse un braccio, poi si mise seduta. Il panico totale, chi fuggiva, chi sveniva e chi scappava. Io abbracciai subito mia sorella. Suo marito insieme all’imam, il maulvi e il muezzin accorsero dalla moschea. “Anis, dimmi la verità, cosa ti è successo? 14 ore fa eri morta!” e lei disse: “Io non ero morta!” La dottoressa era lì presente: “Tu eri morta! Non c’era vita in te!”insistette. “Io non ero morta; stavo dormendo!” disse mia sorella. “Durante il mio sonno ho fatto un sogno. Salivo a piedi su per una scala. In cima alla scala c’era un uomo vestito di bianco con una corona d’oro in testa e dalla sua fronte fuoriusciva una luce intensa. Ho visto la sua mano posarsi sopra di me. C’era una luce che usciva dalla sua mano. Mi ha detto: “Sono Gesù Cristo, il re dei Re! Io ti rimanderò indietro e, al momento stabilito ti riporterò qua”. “Poi riaprii gli occhi”. Mentre parlava aveva il volto raggiante e trabbocava di gioia. Le parole non posso descriverle la gioia e lo stupore di tutta la nostra famiglia. Persino il marito di Anis, che era stato quelli che mi avevano osteggiato di più all’inizio, adesso diceva che le mie preghiere avevano portato sua moglie in vita. Anche mio cognato si convertì insieme a mia sorella, mentre il resto della famiglia mi guardava con cattiveria.
Dopo un po’ anche loro scesero nelle acque battesimali e diedero il loro cuore al Salvatore Gesù. Alcuni mesi dopo fui arrestata e messa in prigione per aver rinnegato l’Islam. In prigione, nel breve tempo che ci rimasi, parlai alle mie compagne di cella della mia fede in Cristo Gesù. Tra loro c’erano due ladre e un’assassina. Quando fui scarcerata avevano dato il cuore a Gesù, li nella cella e mentre mi allontanavo da loro fiumi di lacrime versarono per la gioia di aver incontrato il Salvatore delle loro anime. Nel prosieguo della mia vita, una volta in casa di uno dei miei fratelli venni presa con forza e messa in ginocchio. La pistola puntata alla testa e mi chiesero di rinnegare Cristo, e di non andare più nella chiesa cristiana. Sentivo le voci dei miei parenti con gli occhi pieni d’odio, sparala! Sparala! E finiamola una volta e per sempre. Risposi: “Il Corano afferma che una volta nati, si deve anche morire. Quindi, andate avanti, sparate, non mi importa di morire nel nome di Cristo. La mia Bibbia dice: “Colui che crede in me, anche se muore, vivrà” (Giovanni 11:25). La sua mano tremò, la pistola gli cadde da mano, allora presero me e la mia valigia ed mi buttarono fuori della casa. Sola e abbandonata in mezzo una una strada oscura, cercai di raggiungere la fermata principale degli autobus. Ma avevo poco tempo per arrivarci, oramai era tardi ed ero sola. All’improvviso vidi un uomo che trasportava un risciò, gli feci segno di fermarsi con la mano. L’uomo si fermò e mi fece salire, poi incominciò a correre senza fermarsi fino alla stazione centrale dei autobus. Si fermò poi presa la mia valigia e la trasportò sopra l’autobus. Gli disse quando le devo. “Niente” rispose: “Dio mi ha detto di aiutarla”, e se ne andò, solo allora notai che i suoi occhi erano luminosi. Gesù mi dimostrava in ogni momento la Sua potenza e la Sua protezione sempre in qualsiasi circostanza. Il Signore mi portò in Inghilterra, e da lì ho partecipato a migliaia di conferenze in tutto il mondo, come testimone dell’Iddio Vivente e Vero.
Andai in tutta Europa, compreso l’America, Brasile, Australia, Singapore e l’Estremo Oriente. Fui chiamata a rendere la mia testimonianza di quello che aveva fatto Gesù per me. Con la mia famiglia quando pensavo che oramai tutto era finito. Mi arrivò una lettera da mio fratello più piccolo, Alim che voleva che mi recassi in Pakistan al più presto possibile perché aveva delle importante notizie da darmi. Mi preparai a partire immediatamente, ma non potevo mai immaginarmi quello che doveva dirmi. Alim mi disse che aveva avuto un serio attacco cardiaco, il terzo, e che era stato ricoverato subito presso l’unità di terapia intensiva all’ospedale di Lahore, un ospedale americano gestito da cristiani. Fu constatata la morte; il suo corpo fu spogliato e messo su una pietra di marmo in una stanza vuota. Il dottore poi chiuse la porta e continuò a stilare i documenti, compreso il certificato di morte. I familiari furono informati della sua morte e fu chiesto loro di venire a prelevare il corpo. Alim si trovava in un angolo. Gridava e chiedeva aiuto, e notò allora qualcosa che sembrava una luce bianca, una luce stellare. In mezzo a quella luce c’era una folla di gente che stava adorando un uomo che chiamavano Gesù, il figlio di Dio. Riconobbe il nome che io avevo pronunciato così spesso. Quindi lui si avvicinò a Gesù e disse “Ti prego Gesù. Tu hai aiutato mia sorella Gulshan, per favore aiuta anche me. Tu sei l’unico che può portarmi fuori da questo luogo orribile”. Allora Gesù guardò Alim e disse: “Figlio mio, lascia questo luogo e vivi per me, va alla tua casa, al tuo popolo e sii un mio testimone fedele. Ecco racconta a tutti quello che hai visto, se non gli accadrà a loro se non crederanno. Adesso ti riporto in vita”.
Alim si risvegliò e si ritrovò in una stanza chiusa a chiave, nudo che giaceva su una pietra di marmo. Otto ore erano passate dal suo decesso. Si alzò, trovò i suoi vestiti poggiati su di un mobile, si vestì e poi attese che qualcuno lo venisse a trovare. Quando il guardiano che aveva ricevuto l’ordine dai dottori di prendere il corpo e consegnarlo alla famiglia, vide Alim che sedeva sulla pietra di marmo, rimase terrorizzato e corse fuori stanza. La notizia di ciò che era accaduto si sparse improvvisamente come fuoco impetuoso per tutto l’ospedale e quando la moglie di Alim lo vide svenne. Alim si rifiuto di essere dimesso prima di ricevere il battesimo nella cappella adiacente all’ospedale. Così Alim fu un gran testimone nella mia famiglia, e diceva a tutti che quello che io raccontavo era vero. Quasi tutti si convertirono a Cristo e divennero cristiani attivi. Adesso mi chiamano e mi chiedono persino di pregare per le loro difficoltà. Il Signore è buono e fedele. Amen
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