È angosciante, a volte, pensare che sia così necessario ribadire l’ovvio, ma evidentemente a più di qualcuno sfugge. La morte è definitiva, irrevocabile: da essa non si può tornare indietro. Procurare la morte a una persona è quanto di più grave si possa compiere nei suoi confronti. Non è “farlo smettere di soffrire”, ma farlo smettere di vivere.
Invece, fornirgli tutte le cure di cui necessita e l’assistenza sanitaria, psicologica ed economica di cui ha bisogno contribuisce (insieme alla vicinanza dei suoi cari) ad alleviare la sofferenza, senza affrettare la morte; specie dal momento che tanti che dicono di voler morire lo fanno per il timore di essere un peso per chi si prende cura di loro o per difficoltà nell’accesso alle cure e non, quindi, in piena libertà.
Tutti questi discorsi sono una premessa al racconto di un fatto gravissimo, che abbiamo appreso da un articolo di Life Site News: Michael Hickson, 46enne e malato di Covid19, sarebbe stato fatto morire di fame e di sete al South Austin Medical Center di St. David, in Texas, perché l’ospedale gli avrebbe negato alimentazione e idratazione a causa della sua disabilità. Era infatti tetraplegico e non riusciva ad esprimersi.
A nulla servirono le proteste della moglie, che voleva suo marito vivo e rispettato: un giudice avrebbe nominato tutore di Michael non lei ma la Family Eldercare, un’organizzazione locale, la quale avrebbe dato ordini ai medici di non curare il paziente. «Il dottore ha detto a Melissa: “A questo punto, faremo ciò che riteniamo migliore per lui insieme allo Stato e questo è ciò che abbiamo deciso”».
Dopo sei giorni senza alimentazione e nutrizione (che – ribadiamo l’ovvio – non sono terapie ma sostegni basilari per la vita di ciascuno di noi) Michael è morto. Strappato all’amore di sua moglie, all’affetto dei suoi cari, alla possibilità di vivere dignitosamente fino alla sua morte naturale, circondato dagli affetti e ricevendo le cure necessarie.
«Faccio fatica a capire come e perché ciò possa mai accadere. Ho perso il mio migliore amico, la mia metà migliore, l’altra metà del mio cuore. Sono stata spogliata dei miei diritti di moglie e lasciata impotente a guardare mio marito essere giustiziato. […] Non ho altre parole per esprimere ciò che provo oggi se non il mio essere ferita, arrabbiata e frustrata».
Succede sempre così, lì dove l’eutanasia (attiva o passiva, ma pur sempre omicidio) è stata legalizzata: prima si sbandiera che essa garantisce la libertà e “autodeterminazione”, che sarebbe permessa solo nei casi più gravi, e poi le condizioni di legalità vengono man mano estese anche ai depressi e si moltiplicano i casi in cui viene praticata forzatamente, anche su chi non la vuole, anche su chi ha parenti che lottano per la sua vita.
Togliere la vita a qualcuno, strapparlo definitivamente dai suoi cari, non è “libertà”, ma omicidio. Dov’è calpestato il diritto alla vita, la prima a venir meno è la libertà stessa.
di Luca Scalise | Provitaefamiglia.it
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