Così vive uno schiavo in Pakistan nel 2014. Storia del cristiano Hanif, divenuto proprietà di un musulmano per 390 euro

(WORLD SECTION) PAKISTAN-LAHORE-UNIVERSAL CHILDREN'S DAYHa passato 16 dei suoi 28 anni in una fabbrica di mattoni. «Se cerchi di scappare ti picchiano, ti vendono a qualche altro padrone o ti bruciano vivo nei forni».

Hanif Masih è un cristiano pakistano di 28 anni, 16 dei quali passati in schiavitù in una fabbrica di mattoni. Secondo il Global Slavery Index ci sono ancora 35,8 milioni di schiavi nel mondo. Hanif è uno di loro e la sua libertà è stata comprata un anno fa da una Ong cristiana per 50 mila rupie, pari a 390 euro. Uomo libero da un anno, Hanif, padre di due figli, ha raccontato la sua storia a Der Spiegel.

pakistan-cristiani-schiavi-fabbrica-mattoni2IL PADRONE MUSULMANO. Nadeem Arun Khan è il potente musulmano che possedeva Hanif e la sua famiglia, così come possiede la fabbrica di mattoni dove i cristiani dovevano lavorare nel villaggio di Kasur, 50 chilometri a sud di Lahore, capitale del Punjab. Per Khan parlare di schiavitù è improprio: «Non è così. Loro hanno contratto un debito con me e lavorano per estinguerlo. Tutti qui possono ripagare i loro debiti in pochi mesi. Basta che non siano troppo pigri». La realtà è ben diversa dalla teoria appena annunciata.

DEBITI ETERNI. In Pakistan ci sono due milioni di persone che lavorano in condizioni di schiavitù legalizzata, come un tempo Hanif. Il procedimento è sempre lo stesso: una famiglia contrae un debito con un ricco possidente o imprenditore, questo fa lavorare i debitori nella sua fabbrica o nel suo campo fino a quando il debito non è estinto. Ma la paga è così bassa che il debito non si estingue mai e capita spesso che passi di generazione in generazione. Come nel caso di Hanif.

PER 222 EURO. Tutto è cominciato quando il cristiano era ancora un ragazzino e aveva appena 12 anni. I suoi genitori chiesero in prestito al proprietario della fabbrica di mattoni 35 mila rupie, circa 222 euro, per costruirsi una casa e comprare un piccolo appezzamento di terra da coltivare. «Ai miei genitori fu chiesto in cambio dal proprietario di lavorare nella fabbrica di mattoni. Accettarono, cos’altro potevano fare? Pensavano che avrebbero ripagato il debito in uno o due anni», racconta Hanif.

(WORLD SECTION) PAKISTAN-LAHORE-UNIVERSAL CHILDREN'S DAYDALLE TRE DI MATTINA. Così Hanif, insieme ai genitori e ai quattro fratelli, è stato alloggiato in una stanza minuscola che potevano lasciare solo con il permesso del padrone. Lavoravano sei giorni alla settimana, con due mesi di vacanza durante la stagione delle piogge, quando è impossibile cuocere i mattoni. I giorni in cui non lavoravano non venivano pagati. La giornata cominciava alle tre di mattina: le donne e i bambini impastavano argilla, terra, sale e acqua che versavano poi negli stampi per i mattoni. Dopo 24 ore, gli uomini li portavano al forno per cuocerli. Dopo un giorno erano pronti e venivano trasportati nel magazzino.

«PANE E LENTICCHIE». Gli schiavi vengono pagati a mattone: «Se lavorano anche i bambini, una persona può guadagnare in media tremila rupie a settimana (20 euro) – spiega il cristiano liberato – ma dipende da quanti mattoni produci. Mille rupie sono destinate ogni mese all’estinzione del debito, circa ottomila restano alla famiglia. Questo basta per avere pane e lenticchie per la famiglia». Verdura se ne vedeva poca, la carne due volte al mese, per le feste. A questo ritmo i genitori di Hanif avrebbero dovuto ripagare il debito in tre anni. Ma questo non è successo.

NUOVI DEBITI. «Se qualcuno si ammala e ha bisogno del dottore, ci si indebita ancora», continua Hanif. «Se sei malato, poi, non lavori e non vieni pagato». Il padrone della fabbrica, inoltre, segnava interessi maggiori di quelli dovuti. Per tutti questi motivi il debito, invece che diminuire, continuava a crescere. Hanif non è mai andato a scuola e quando a 22 anni ha conosciuto una ragazza, Rebekka, e si è sposato, ha dovuto chiedere un ulteriore prestito di 20 mila rupie (186 euro). Quando è nato il primo figlio, Rebekka ha avuto complicazioni e ha dovuto partorire in ospedale con un parto cesareo. Tutto è andato bene ma Hanif ha dovuto indebitarsi per altre 30 mila rupie (242 euro).

pakistan-cristiani-schiavi-fabbrica-mattoni«BRUCIATI VIVI». Shehzad e Shama Bibi, la coppia cristiana bruciata viva nel forno di una fabbrica di mattoni per false accuse di blasfemia, erano due schiavi proprio come Hanif. Come loro, anche lui non ha mai pensato di scappare: «Dovevo ripagare i miei debiti! E poi non sarebbe servito a niente. Hanno i loro uomini: ci avrebbero trovati, riportati indietro e picchiati. Gli stupri sono all’ordine del giorno. Come punizione puoi essere venduto a un altro proprietario, magari in una regione lontana, e morire senza aver mai più rivisto casa tua. Alcuni, infine, vengono anche bruciati vivi nei forni, così da non lasciare tracce». Rivolgersi alla legge è del tutto inutile: i proprietari delle fabbriche sono ricchi e contro di loro la giustizia pakistana non può niente.

IL LIBERATORE. Hanif Masih oggi è libero grazie a Shahzad Kamran, fondatore della Ong Vast Vision, che si occupa di liberare quanta più gente possibile dalla schiavitù. Ovviamente non può comprare la libertà di tutti e deve fare delle scelte: «Aiutiamo solo chi ha buone prospettive di sopravvivere da solo. Prediligiamo le famiglie e solo quelle che vogliono mandare i figli a scuola e hanno un posto dove vivere. Altrimenti farebbero subito altri debiti e si ricomincerebbe da capo. La scelta ovviamente non è facile ma noi non possiamo liberare tutti».

«CI BASTA POCO». A un anno dalla liberazione, Hanif abita in una stanza di nove metri quadrati costruita di fianco alla casa dei genitori. Si guadagna da vivere vendendo the e yoghurt nel suo villaggio di Fatepur e raccogliendo patate. Non ha quasi niente ma non si lamenta: «La libertà di fare ciò che si vuole è inestimabile. Noi non abbiamo bisogno di molto per essere felici. Spero solo che nessuno in famiglia si ammali, perché non abbiamo soldi per il dottore e non possiamo indebitarci ancora».

Leone Grotti

Fonte: http://www.tempi.it/


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