Così gli Stati Uniti sono diventati il paradiso fiscale più ricco di capitali, società di comodo e paradossi

las-vegas-shutterstock_427258459Hanno vinto la guerra al segreto bancario ma non hanno aderito agli accordi Ocse sulla condivisione delle informazioni.

Nel 2007, grazie alle rivelazioni di un ex dirigente della filiale americana della Ubs, gli Stati Uniti dichiararono guerra al segreto bancario svizzero, guerra che si concluse due anni dopo con la resa incondizionata di 80 banche elvetiche, che accettarono di pagare al fisco americano 5 miliardi di dollari di sanzioni per avere aiutato migliaia di contribuenti americani a evadere il fisco trasferendo i loro capitali offshore. Nel 2010 gli Stati Uniti gettarono le basi di una legislazione universale contro i paradisi fiscali approvando il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca), una legge che impone agli istituti finanziari stranieri con una filiale negli Stati Uniti di scambiare con le autorità fiscali degli Usa tutte le informazioni relative ai loro clienti americani, pena un prelievo del 30 per cento su ogni versamento dall’America su conti esteri in caso di omissione. Il Fatca ha dato una spinta decisiva all’accordo internazionale sullo scambio di informazioni finanziarie e tributarie fra giurisdizioni diverse, sulla base di uno standard elaborato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), che è stato inaugurato nel luglio 2015 ed è stato sottoscritto fino ad oggi da 96 paesi.

Paradossale risultato di tutto questo percorso: oggi, maggio 2016, gli Stati Uniti sono diventati il più grande paradiso fiscale del mondo. “Paradisi fiscali Usa: la nuova Svizzera”, titola il Financial Times; “Gli Usa stanno diventando uno dei migliori rifugi del mondo per evasori fiscali”, gli fa eco un servizio della Associated Press. “Dimenticate Panama: è più facile nascondere il vostro denaro negli Stati Uniti che in quasi tutto il resto del mondo”, ironizza il Guardian. «Gli Stati Uniti sono già il più grande centro offshore del mondo. Hanno fatto un buon lavoro azzoppando la competizione da parte delle banche svizzere», ha commentato Bruce Zagaris, avvocato proprietario di uno dei più famosi studi legali che trattano queste materie.

Che cosa è successo? È successo qualcosa che ha molti precedenti: gli Stati Uniti hanno imposto agli altri degli standard che non sono disposti ad accettare per se stessi. Gli Usa non hanno firmato l’Accordo multilaterale sull’autorità competente che regola lo scambio automatico di informazioni messo a punto dall’Ocse, nonostante esso si ispiri al Fatca. Affermano di volere procedere sulla base di accordi bilaterali, alcuni già conclusi e altri da concludere, con tutti gli altri paesi.

Gli standard presenti negli attuali accordi bilaterali sottoscritti dagli Usa lasciano molto a desiderare: quando i conti bancari sono intestati, l’istituto trasmette i nomi e l’ammontare degli interessi attivi, ma non il saldo contabile; non indaga sulla struttura societaria delle entità (società schermo, trust, ecc.) che possiedono conti correnti bancari per poter indicare i reali beneficiari; i dati vengono condivisi solo con paesi che applicano determinati standard tecnici e relativi alla privacy. Il ministero del Tesoro e alcuni deputati hanno presentato iniziative legislative che porterebbero gli Usa allo stesso livello degli attuali 96 firmatari dell’Accordo sponsorizzato dall’Ocse, ma alcuni stati della federazione e il Congresso a maggioranza repubblicana fanno ostruzionismo.

In fuga dalle Alpi
Risultato: boom di società schermo e di capitali anonimi soprattutto in alcuni stati dove la tassazione sulla costituzione delle società è quasi inesistente e la confidenzialità massima (Sud Dakota, Delaware, Nevada, Wyoming e Alaska); balzo in classifica degli Stati Uniti che salgono al terzo posto nel mondo per quanto riguarda l’assenza di trasparenza bancaria subito dietro Svizzera e Hong Kong, ma davanti alle Isole Cayman e al Lussemburgo; tasso di crescita dei capitali offshore che entrano nel paese al 6 per cento annuo, il terzo più alto del mondo dopo quelli di Hong Kong e Singapore (9 e 8 per cento rispettivamente), ben più alto di quello della Svizzera che è scesa a un più 4 per cento scarso. È evidente che queste tendenze sono il risultato della mancata firma americana all’accordo multilaterale Ocse.

In termini quantitativi il paradiso fiscale Usa è meno ricco di quello svizzero: mentre i capitali offshore presenti in quest’ultimo sono stimati a 2.700 miliardi di dollari (1.900 dei quali non dichiarati nei paesi di origine), nel primo ammontano per ora “solo” a 800 miliardi. Ma il sorpasso è una possibilità: chi ha sottoscritto l’accordo Ocse dovrà metterlo in pratica a partire dall’inizio del 2017 o del 2018. Il primo caso riguarda paesi come Bermude, Isole Vergini e Isole Cayman, il secondo paesi come Svizzera, Hong Kong e Singapore. Nel tempo che resta, molti potrebbero decidere di trasferire i propri beni nelle oasi americane. Anzi, lo stanno già facendo. Trident Trust, la più grande società di servizi per trust offshore nel mondo, ammette che la maggior parte dei conti che nel solo dicembre scorso sono stati trasferiti nel Sud Dakota per diventare trust (uno strumento giuridico per gestire patrimoni al riparo delle tasse grazie ai rapporti fiduciari fra i vari soggetti coinvolti in esso) provengono dalle Cayman e dalla Svizzera: «Sono stupita di quanti dei nuovi arrivati disponevano in precedenza di conti in Svizzera», ha dichiarato Alice Rokahr presidente della filiale locale di Trident. «Volevano assolutamente uscire dalla Svizzera». La fuga dalla Confederazione elvetica con destinazione le praterie americane è confermata da Boston Global Capital e da altre società di consulenza finanziaria.

Il caso Rotschild
Ma c’è un paradosso ancora più grande di quello rappresentato dall’inversione delle direttrici di fuga – prima i capitali si muovevano dagli Usa alla Svizzera per non pagare le tasse, ora viaggiano in senso contrario sempre per lo stesso motivo –. Ci sono persino banche svizzere che in passato hanno dovuto pagare salatissime multe per aver aiutato contribuenti ad evadere il fisco americano, e che adesso assistono evasori ed elusori fiscali che trasferiscono i loro patrimoni negli Usa!

È il caso della filiale svizzera della banca Rotschild, che meno di un anno fa ha concluso un accordo col fisco americano ammettendo le proprie responsabilità per aver assistito quasi 300 contribuenti americani a nascondere al fisco i propri redditi: ha dovuto pagare una multa da 11,5 milioni di dollari. Nel frattempo Rotschild ha aperto una società fiduciaria a Reno, nel Nevada, in un anonimo palazzo a poche centinaia di metri dai più famosi casinò della città, e lì sta trasferendo le fortune di ricchi clienti che fino a ieri usufruivano dei servizi dell’opaco sistema bancario delle Bermude, destinato ad aprirsi ai controlli multilaterali da qui a pochi mesi. I reprobi di ieri sono diventati gli inconfessabili benefattori di oggi.

Verosimilmente l’idrovora americana sta succhiando capitali offshore anche dai due paesi dell’eurozona che più assomigliano a paradisi fiscali: l’Olanda e il Lussemburgo. Secondo l’Unctad, ente specializzato delle Nazioni Unite, nel corso del 2015 ben 221 miliardi di dollari sono stati messi al riparo da compagnie multinazionali presso giuridisizioni che garantiscono un trattamento fiscale di favore. In testa ci sono l’Olanda del presidente dell’Eurogruppo (ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’euro) Jeroen Dijsselbloem, sempre pronto a bacchettare i paesi dell’Europa meridionale per le loro politiche fiscali lasche, e il Lussemburgo del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, astuto protettore nell’ombra del paradiso fiscale del granducato, seguiti da Isole Vergini e Cayman.

L’inversione dei flussi
Ma la vera curiosità consiste nell’andamento dei flussi finanziari: nei primi tre quadrimestri dell’anno i flussi hanno battuto i record degli anni precedenti, poi nell’ultimo sono crollati. Nel terzo quadrimestre i flussi verso le società ombra con sede in Olanda, provenienti soprattutto da Lussemburgo e Regno Unito, hanno raggiunto i 148 miliardi, la cifra più alta dal 2007, poi la tendenza si è rovesciata. I flussi in Lussemburgo nei primi tre quadrimestri del 2015 sono triplicati rispetto all’anno precedente, poi nell’ultimo c’è stata la fuga: 115 miliardi di disinvestimento in un quadrimestre. Si trattava nella quasi totalità di profitti di multinazionali sottratte all’imposizione fiscale dei paesi dove erano stati realizzati: nel 2015 la farmaceutica britannica AstraZenica non ha pagato un euro di tasse su 3 miliardi di sterline di profitti semplicemente trasferendoli a una sussidiaria in Olanda. Che cosa è successo di così devastante nell’ultimo quadrimestre dell’anno scorso? Niente, semplicemente sono entrati in vigore alcuni capitoli dell’accordo Ocse. E subito i soldi sono volati via. Verso ovest, di là dall’Oceano.

Società schermo prêt-à-porter
Alla Conferenza internazionale contro la corruzione che si è tenuta a Londra settimana scorsa sotto l’egida del primo ministro David Cameron (per niente condizionato dalle notizie sulle disinvolture finanziarie di suo padre rivelate dai Panama Papers) alcuni paesi perennemente accusati di essere paradisi fiscali hanno reagito chiamando sul banco degli imputati gli Stati Uniti. Il presidente delle Isole Cayman li ha accusati di ipocrisia, il primo ministro dell’Isola di Man ha denunciato che esistono dieci volte più società di comodo registrate presso un unico indirizzo di un palazzo di Dover nel Delaware che in tutta la giurisdizione di Man.

Il presidente del Natural Resource Governance Institute Daniel Kaufmann ha affermato che «è più facile ottenere una società schermo non tracciabile attraverso i servizi per la costituzione di una società negli Stati Uniti che in qualunque altro paese del mondo, tranne il Kenya». Il che fa venire in mente una denuncia del Guardian: «Creare una società schermo negli Stati Uniti è più facile che rinnovare una tessera della biblioteca». Per rinnovare una tessera della biblioteca scaduta, infatti, nel Delaware è necessario un documento che indichi la residenza attuale della persona, come la patente automobilistica o la bolletta intestata dell’elettricità. Per costituire una società schermo non serve nessun documento che renda nota la residenza della persona. 

Foto Las Vegas da Shutterstock

Rodolfo Casadei | Tempi.it

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