Conquista dell’inutile

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25-Foto_1nj1Il sogno di portare il proprio corpo là dove gli occhi hanno guardato è un potente motore che spinge gli alpinisti a scalare le montagne.

Le montagne che si avvicinano al cielo sono state considerate un soggiorno divino e in molti casi si parla di montagne sacre, portatrici di vita e di fertilità. Molte di queste sono considerate sacre per i nativi e non sono mai state scalate. I monti nel testo biblico hanno uno spazio importante: su molti di questi si costruisce un santuario e spesso alcuni incontri fondamentali con Dio vengono collocati in cima ad alcuni di essi. I monti sono simbolo di potenza di Dio e sono luoghi impervi dai quali guardarsi, abitati da animali pericolosi, o dove è facile perdersi o lasciare la famosa pecora che poi bisogna andare a cercare. Dai monti, come se fossero un pulpito naturale, vengono pronunciati alcuni grandi discorsi da parte di Gesù; i monti saltellano, prorompono in grida di gioia e vengono spostati dal Signore. Oltre ad alcuni monti, sui quali vi erano culti pre-israelitici (Tabor, Carmelo, Libano, Hermon) e che conservano tradizioni legate a santuari di Baal, Dio lega il suo nome al Sinai (luogo della rivelazione) e a Sion (sua dimora). Significativamente Mosè costruisce un piccolo santuario e dodici pietre ai piedi del monte Sinai (Es. 24, 4).

Il 29 maggio del 1953, 61 anni fa, quando chiesero a Sir Edmund Hillary, al ritorno dalla prima salita all’Everest: «Perché si scalano le montagne? », rispose «Perché sono là!». Poi il nome originale del Chomolongma, che in tibetano vuol dire Madre dell’universo, venne cambiato, in onore di Sir George Everest, cartografo in servizio in India per la corona britannica. Colui che dà il nome crea, conquista. Anche il nostro «Club Alpino Italiano» ha scelto la linea della lotta e della conquista delle montagne stampando su tutte le tessere la famosa frase di Guido Rey, «Io credetti, e credo, la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede». Circa un secolo dopo, l’alpinista francese Lionel Terray parlerà di conquistatori dell’inutile, titolo della sua biografia.

L’inutile ritorna ogni anno quando qualche alpinista muore sotto una slavina, cade o più semplicemente inciampa e finisce in un burrone. Allora si scatenano i giornalisti e le televisioni che parlano di fatalità, di montagna assassina e di sicurezza. Sotto sotto molti, compresi i lettori, si chiedono perché si debba rischiare la vita per una cosa così inutile e in fondo faticosa. Ho partecipato alcune volte, ormai, a funerali di amici e conoscenti morti in montagna; sono tornato da solo da un cresta ghiacciata dopo che il mio amico era volato giù da una parete. Le guide di Briançon mi dissero subito che, se fossimo stati legati in quel punto, sarei volato giù anch’io. Altre volte sono rimasto a casa perché dovevo lavorare e non ho più sentito la voce di chi il giorno prima mi invitava per una gita in sci domenicale. Complice, credo, il mio essere pastore valdese, mestiere che spesso suscita la curiosità delle persone con cui vado in montagna: i temi del perché si va in montagna e del perché si accettano dei rischi fa parte delle chiacchiere in auto. La montagna è gioco, scoperta, bellezza. È calore della roccia, è odore dei prati e della neve. La montagna è la luce dell’alba, la luna piena sul ghiacciaio, l’ombra dei boschi. È il vuoto sotto i piedi, è sentire il proprio corpo, le mani sulla roccia. La montagna è una scusa per viaggiare, per scoprire nuove valli, per perdersi nel silenzio. «Sì, ma perché andare a cacciarsi in un posto pericoloso? Non basterebbe andare in giro a fare passeggiate nei boschi?». Si potrebbe rispondere che la maggior parte degli interventi di soccorso è fatta per recuperare i cercatori di funghi che inciampano nei boschi; ma la domanda resta. Negli anni ‘30 un alpinista di Marsiglia affermava: «In fondo a noi ci sono desiderio e piacere di giocare e di respirare, cioè correre, saltare, nuotare, arrampicare (…) Sotto molti punti di vista, un’ascensione è uno spazio da attraversare. Si sogna. Sognare, aspettare è già essere in cammino. Portare il proprio corpo laddove gli occhi un giorno hanno guardato» (Gaston Rebuffat).

Nelle valli piemontesi degli anni ‘70 la parabola si completa. La conquista della cima si trasforma nell’arrampicata sulle pareti del fondovalle. I tempi si dilatano e il principio stesso dell’eroe viene vinto dall’autoironia. Nessuna conquista; nessun senso di avvicinarsi agli dei, come credevano gli antichi o come hanno fatto gli alpinisti sotto le diverse dittature; nessuna retorica della sofferenza per la gloria personale o per la patria. Nessuna lapide e nessuna croce di vetta. Solo il sogno, il piacere. La retorica nazionale non parla dei morti in cerca di funghi o di quelli sulle tangenziali ma di quanto costa il soccorso alpino per andare a recuperare chi è andato a ficcarsi nei guai per colpa di un sogno o del piacere dell’inutile. L’alpinismo è accettato come forma di conquista, per portare la bandiera più in alto, croci e madonne più vicino agli dei. È accettato e sponsorizzato se fa notizia, se c’è il record, se c’è la via nuova sulla parete impossibile o se crea l’eroe. Ma non per un’inutile e improduttiva scalata domenicale; non che qualcuno metta in conto dei rischi per qualcosa di inutile e di improduttivo; non che qualcuno accetti di mettere in gioco la sua vita per un sogno o per il piacere fine a se stesso. Le riflessioni sulle morti degli alpinisti variano dal cinico «se l’è andata a cercare» fino all’ovvio «fosse rimasto a casa non sarebbe successo». Eppure il sogno di portare il nostro corpo là dove i nostri occhi hanno guardato continua ad essere un motore potente.

Molto presto gli alpinisti riconobbero l’importanza di un limite da rispettare per poter continuare a alimentare il sogno. Preservare un ignoto, un intoccabile, è parte del sogno. Forse qui, nel senso del limite, nel desiderio che si alimenta preservando un regno che non si può calpestare, mi piace collocare una relazione tra l’alpinismo e Dio: tra l’infinito desiderio e libertà umana di ricercare e la fortunata impossibilità di toccare con una mano gli dei. In mezzo c’è tutto ciò di cui si può godere: l’acqua dei torrenti in giugno e il colore dei boschi in autunno; la solitudine che svuota i pensieri e rigenera la mente e il rumore del vento; l’odore della corda e quello dei prati falciati; la traccia nella neve fresca e il vuoto sotto gli sci; l’attesa del sole che scalda la roccia e smolla la neve prima di scendere. Poi si tolgono gli scarponi e si ritorna nella civiltà.

Davide Rostan

Fonte: http://www.riforma.it/

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