Le donne che decidono di praticare un’interruzione volontaria di gravidanza programmano l’omicidio del loro bambino e seguono, solitamente, due strategie: il metodo chimico; il metodo chirurgico.
Il primo metodo consiste nell’assunzione di un farmaco, la RU486, un antiprogestinico di sintesi, associato alla prostaglandina. Si può usare entro i primi 49 giorni di amenorrea (assenza delle mestruazioni) e provoca dolori simili a quelli del parto, poiché il feto deve comunque essere espulso dal corpo della madre.
Il secondo metodo è un’operazione chirurgica vera e propria, che è fatta da medici specialistici, in ospedale. Consiste nel dilatare il collo dell’utero e nell’aspirarne il contenuto, anche a pezzi, se necessario! Così, in soli 15 minuti, il feto viene tirato fuori dal corpo materno, dove si era annidato pensando di essere al sicuro.
Basta poco per immedesimarsi in una qualsiasi delle donne che decidono di abortire e comprendere che, qualunque metodo si scelga, si fa violenza sul corpo della gestante, che, per forza di cose, vive l’eliminazione del bambino, che avrebbe dovuto nutrire e far crescere sano.
Purtroppo, oltre alla insana convinzione di avere il diritto all’aborto, circolano, in giro per il Web soprattutto, delle informazioni errate, dei dati manipolati, sui rischi effettivi di queste operazioni. Non si tratta solo di danni psicologici, ma di rischi per la salute della madre.
Solo adesso, gli ex promotori dell’aborto, quelli che si sono ricreduti sul loro operato, stanno rivelando come abbiano falsificato i dati, che parlano delle percentuali di rischio per la vita della donna.
Non è da sottovalutare mai ciò che, noi anti abortisti, riteniamo essere la prima devastane conseguenza dell’interruzione volontaria di gravidanza: il peso sulla coscienza, che mai verrà ripulita del tutto dall’idea di aver rifiutato un bambino mandato dal cielo, a cui si è negata la possibilità di venire al mondo, per puro egoismo.
Antonella Sanicanti
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