“La sofferenza potrebbe essere considerata come una sorta di megafono con cui Dio cerca di parlare a un mondo sordo ai suoi richiami”. Così si esprimeva C.S. Lewis (autore noto per le Le cronache di Narnia), pur affranto per la perdita della moglie Joy e in piena lotta con sé e con Dio per accettare tale metodi da parte di quest’ultimo. Di certo, quanto sta accadendo nel mondo intero (oltre il cieco e sordo negazionismo) ci sta quotidianamente immergendo nel liquido di una provvisoria esistenza.
Il lento scorrere del tempo per chi è nella quarantena, necessaria ad affrontare e combattere il contagio dal Covid, è simile a quella goccia che ritma nella sua caduta sulla roccia il tormento dell’anima. Tutti poi siamo stati costretti dal “distanziamento sociale” alla revisione dei nostri gesti istintivi, alla modifica dei nostri calorosi e spontanei comportamenti. Sono mesi, ormai, che tutto è cambiato, e nonostante l’impegno profuso e le scrupolose attenzioni messe in atto, i numeri ci sono ancora terribilmente ostili.
Nell’ultimo periodo il virus pare aver preso di mira l’area ecclesiale, con centinaia di ministri e responsabili, migliaia di credenti colpiti e messi a dura prova, al punto che qualche esponente in abito talare ha avanzato l’ipotesi di una macchinazione diabolica. Potrebbe essere un azzardo, ma provando a fare una percentuale tra i miei contatti (diretti e indiretti) sfioriamo il 30% di contagiati, circa la metà di questi sono persone coinvolte in prima linea nel ministero ecclesiale, e parecchi sono costretti al ricovero ospedaliero,. Ciascuno può certamente elaborare proprie risultanze, resta di certo un dato numerico consistente, e mette i brividi poi contare quelli che si “sono addormentati” nel Signore, precedendoci nella Gloria. Un elenco in continuo aggiornamento, purtroppo.
Davanti a questo quadro dalle tinte fosche, desiderando di offrire una parola buona per tutti e uno spunto di ispirazione, ho ripreso uno scritto medievale, circolante già nella prima fase dell’emergenza, e che rispondeva a chi domandava quale dovesse essere l’atteggiamento dei cristiani durante un’epidemia, quando le persone stanno soffrendo e morendo, e l’istinto consiglierebbe di badare a sé e di allontanarsi il più possibile dalle zone a rischio. Sì, perché la reazione più diffusa è lo smarrimento prima, e poi il discutere con Dio su tutto quanto, senza però trovare il bandolo della matassa e finendo lentamente in uno stato depressivo alla ricerca di una via di fuga. Eppure, fin delle origini del cristianesimo, la comunità dei discepoli è stata profondamente motivata dall’insegnamento di Gesù di non scappare dalla propria vocazione di “buon samaritani” e perseverare nella sofferenza, assumendo finanche dei rischi in nome della carità. Ogni altro atteggiamento sarebbe stato come rinnegare il Maestro, il quale aveva detto che “nessuno ha amore più grande di questo: dare la propria vita per i suoi amici” (Giovanni 15:13). E lo ha dimostrato dando l’esempio per primo.
Nel 1527, a meno di duecento anni dall’ultima comparsa europea, la peste riappare a Wittenberg, la città dove Lutero risiedeva, e nei dintorni. Da lì, come un fuoco dilagante (per il vento di errati comportamenti) toccherà tutta l’Europa, inclusa la nostra Italia. Fu allora che alcuni cristiani tedeschi chiesero a Martin Lutero indicazioni e lumi sul comportamento da tenere. Differentemente da chi, fatto bagagli e armato il carro, si dava alla fuga per preservare la propria vita, Martin Lutero rifiutò di abbandonare la città, optando di rimanere lì per assistere gli ammalati. Tale decisione gli costò il caro prezzo della vita di Elizabeth, sua figlia. Nella sua lettera Se è lecito fuggire da una pestilenza mortale, valuta appunto quali debbano essere le responsabilità dei cittadini ordinari durante il contagio. Le sue posizioni, per altri temi non sempre condivisibili, su tale questione sono di una straordinaria attualità. I suoi consigli, a distanza di cinquecento anni, sono una guida pratica ai cristiani che devono affrontare la diffusione di malattie infettive ancora oggi.
Così parte dello scritto del Riformatore:
“È ancora più disonorevole per una persona non prestare attenzione al suo proprio corpo e non riuscire a proteggerlo dalla pestilenza al meglio delle sue capacità, e poi infettare e avvelenare gli altri che sarebbero potuti restare vivi se quella persona si fosse presa cura del suo corpo come avrebbe dovuto. Egli è quindi responsabile davanti a Dio per la morte del suo prossimo ed è omicida molte volte. Infatti, una tale persona si comporta come se una casa stesse bruciando nella città e nessuno stesse cercando di spegnere il fuoco. Invece dà libertà alle fiamme in maniera tale che l’intera città bruci, dicendo che se Dio lo volesse, potrebbe salvare la città senza acqua per spegnere il fuoco.
No, miei cari amici, questo non va bene. Usate le medicine; prendete le pozioni che vi possono aiutare; disinfettate la casa, il cortile, la strada; evitate le persone e i luoghi dove il vostro vicino non ha bisogno della vostra presenza o è guarito, e agite come un uomo che vuole aiutare a estinguere le fiamme della città. Cos’altro è l’epidemia se non un incendio che invece di distruggere legno e paglia divora vite e corpi?
Dovresti pensare in questa maniera: «Molto bene, per decisione di Dio il nemico ci ha mandato frattaglie velenose e mortali. Perciò io chiederò a Dio misericordioso di proteggerci. Poi disinfetterò, aiuterò a purificare l’aria, darò e prenderò le medicine. Eviterò luoghi e persone dove la mia presenza non è necessaria per non contaminarmi e quindi forse infettare e contaminare gli altri, e così causare la loro morte come risultato della mia negligenza. Se Dio vorrà prendermi, sicuramente mi troverà e io avrò fatto ciò che egli si aspetta da me, e così non sarò responsabile per la mia propria morte o per la morte degli altri. Se il mio vicino ha bisogno di me, comunque, non eviterò i luoghi o le persone ma ci andrò volontariamente, come ho già affermato».
Vedi, questa è una fede realmente basata sul timore di Dio perché non è insolente né avventata né tenta Dio”.
Innanzitutto, Lutero sostiene che chiunque abbia una vocazione di servizio, colui/colei che ha scelto di seguire Cristo, ha un impegno a non fuggire, ossia a voltare le spalle o passare sul lato opposto di chi è bisognoso di aiuto. Coloro che svolgono un ministero, scriveva, «devono altresì rimanere saldi davanti al pericolo della morte», in piena sintonia con le conclusioni del vangelo “perché chiunque vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e dell’evangelo, la salverà” (Marco 8:35; Matteo 16:25). Allo stesso modo, coloro che ricoprono cariche civili, gli amministratori pubblici devono continuare ad assolvere ai loro doveri. Parimenti i genitori e i tutori hanno doveri vocazionali nei confronti dei loro bambini. Chi è in salute può contribuire in qualche modo. I malati e coloro che stanno morendo hanno invece bisogno di chi può dar loro una parola di conforto, rafforzare la fede nel momento del viatico nella valle dell’ombra della morte. Un compito assolto ai nostri giorni da molti sanitari, gli unici a poter varcare la soglia delle stanze di rianimazione, e per questo sovraccarichi di pietà e devastati emotivamente dallo spegnersi davanti ai loro occhi di centinaia di persone.
Lutero non limitava la cura dei malati ai professionisti del sistema sanitario, cosa oggi non sempre possibile. La sua posizione, confortata dal Vangelo, ci sfida a scorgere un’opportunità nell’assistere i malati (Matteo 25:41–46). L’amore per Dio si manifesta nell’amore per il prossimo, e questo allarga le nostre possibilità di aiuto verso le famiglie dei contagiati, verso quanti piegati dalle conseguenze dei lockdown. Con un forte impatto traumatico l’emergenza in corso ha fatto cadere la maschera indossata al tempo del passato recente, per farci vedere gli aspetti chiaramente patologici del nostro stile di vita personale e collettivo. L’impegno di ogni credente oscilla tra due beni in conflitto: onorare la propria vita e onorare quella di coloro che sono nel bisogno. La pandemia ci sta aiutando a riscoprire che viviamo in una casa comune costringendoci a ragionare in termini di cooperazione e solidarietà. Ogni posizione estrema diviene negazione della “fede realmente basata sul timore di Dio perché non è insolente né avventata né tenta Dio”. Quanto avremmo da riflettere e meditare su queste parole.
Tutti però non dovevano sottrarsi dalle prescrizioni necessarie, e quindi esporsi in maniera sconsiderata. Attenzione massima nell’attenersi a poche e basilari norme igieniche: disinfettare, ricambiare l’aria e assumere le medicine. Pur affidandosi sempre al Dio misericordioso. Oggi, come allora. Peccato non avesse le mascherine. “Nessuno infatti ebbe mai in odio la sua carne, ma la nutre e la cura teneramente, come anche il Signore fa con la chiesa”, così l’apostolo Paolo nello scrivere agli Efesini (5:29). Lutero ritiene che Dio dà agli uomini una tendenza a proteggersi e nel prendersi cura dei propri corpi. Afferma, infatti, che «abbiamo la responsabilità di allontanare questo veleno al meglio delle nostre abilità perché Dio ci ha comandato di prenderci cura del corpo». Difende perciò le misure di salute pubblica come la quarantena e incoraggia la ricerca delle cure mediche quando disponibili. Non agire in questo modo equivale ad agire in maniera sconsiderata. E ancora, guarda alle medicine come un dono che Dio ha fatto agli uomini al pari dei propri corpi. Quanto era avanti.
Nell’anno del Covid, siamo tutti pervasi da un immenso desiderio di tornare a una “normalità” vivibile e gestibile, ma abbiamo necessità ogni giorno di intraprendere un cammino di rigenerazione. Lo scritto di Lutero ci esorta a cogliere “il tempo opportuno (kairòs) in cui agire e mettere a frutto i nostri doni al servizio del bene comune, facendo la nostra parte, evitando di soffocare precocemente il desiderio di rinascita a causa dell’insidioso richiamo a tornare alla ‘normalità’ malata di prima”. Così come certamente abbiamo delle opportunità da cogliere nella situazione vivendi. Benché provato, Lutero non abbandonò mai i suoi concittadini, né tantomeno il suo Dio. Anzi è in questo tempo che scrisse il suo inno più noto “Forte rocca è il nostro Dio”.
Elpidio Pezzella
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