Washington ha già detto che qualunque accordo verrà trovato al Cop21 non dovrà essere vincolante. Pechino si limita ad agire all’opposto di quanto promesso.
Cina e Stati Uniti producono da soli il 45 per cento delle emissioni di Co2 mondiali. È chiaro quindi che non può esistere un accordo su clima e cambiamenti climatici senza di loro. Anche per questo il presidente della Repubblica francese, François Hollande, che a fine novembre aprirà a Parigi la Conferenza sul clima dell’Onu (Cop21), è impegnato da mesi a cercare un accordo preliminare con Washington e Pechino.
LA DOCCIA GELATA. L’inquilino dell’Eliseo ha ricevuto però due belle docce gelate, anche se diverse tra di loro. Mercoledì, il segretario di Stato John Kerry, intervistato dal Financial Times, ha fatto la dichiarazione più temuta da ogni organizzatore di una conferenza sul clima, da sempre piene di promesse e belle speranze: l’accordo che sarà raggiunto a Parigi, ha detto Kerry, «non sarà sicuramente un trattato. Gli obiettivi di riduzione delle emissioni non saranno quindi giuridicamente vincolanti». Che tradotto significa: facciamo pure tante promesse, però nessuno deve pretendere che vengano anche mantenute.
«COSÌ NON È UN ACCORDO». Immediata la reazione allibita del ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius: «Ho visto il mio amico Kerry ieri. Diciamo che poteva essere più gentile. Bisogna che le cose siano chiare. Possiamo discutere della natura giuridica dell’accordo. Ma è evidente che alcune disposizioni devono avere un effetto pratico». Per una volta, anche Hollande ha colpito nel segno: «Se l’accordo non sarà giuridicamente vincolante, non potrà essere chiamato accordo. Perché allora vorrà dire che non sarà possibile verificare o controllare gli impegni presi».
FALLIMENTO ANNUNCIATO. Questo è esattamente ciò che gli Stati Uniti (e anche la Cina) vogliono. Le parole di Kerry rischiano davvero di far naufragare con un mese di anticipo la Cop21. L’obiettivo dichiarato della Conferenza è quello di contenere a 2 gradi (poi aggiornati a 2,7 gradi) l’innalzamento della temperatura rispetto ai livelli pre-industriali. Come dimostrato da uno studio da poco pubblicato su Global Policy dallo scienziato politico danese Bjørn Lomborg, questo obiettivo è però «una pia illusione». Complessivamente, infatti, i quasi 200 paesi che parteciperanno alla Cop21 hanno promesso di tagliare le emissioni di Co2 in totale di 36 miliardi di tonnellate. Ma così, la temperatura si ridurrà di appena 0,17 gradi. Per ottenere una riduzione di 2,7 gradi, bisognerebbe tagliare le emissioni di 3.333 miliardi di tonnellate.
PROMESSE E BUGIE. Già questo basta a far capire quanto i progetti della Conferenza sul clima siano irrealizzabili. Il segretario di Stato americano poi, sapendo bene che il Congresso repubblicano non ratificherebbe mai un trattato vincolante, l’ha affossata definitivamente. Ma anche senza l’intervento degli Stati Uniti, ci avrebbe pensato la Cina a far fallire tutto, se pur in modo più subdolo e meno chiassoso.
DATI FALSATI. Pechino ha promesso di fermare l’aumento delle emissioni di Co2 entro il 2030 e di raddoppiare fino al 20 per cento il suo utilizzo di energia pulita. L’annuncio fatto per la prima volta a novembre dell’anno scorso è di quelli importanti: il Dragone emette 10,4 miliardi di tonnellate di Co2 all’anno e la sua economia è basata per quasi il 90 per cento sui combustibili fossili. Peccato che pochi giorni fa il New York Times abbia rivelato come questi calcoli siano falsati dal 2000: la Cina in realtà brucia come minimo una tonnellata di Co2 in più all’anno da almeno 15 anni.
155 NUOVE CENTRALI A CARBONE. Ma c’è di peggio. Nonostante la promessa di ridurre l’approvvigionamento di energia da centrali alimentate a combustibili fossili, il nuovo piano quinquennale stilato durante il quinto plenum del Comitato centrale del partito comunista prevede che la Cina cresca di circa il 6,5 per cento all’anno per i prossimi cinque anni. Da gennaio, cioè due mesi dopo aver annunciato la riduzione di emissioni di Co2, il governo ha autorizzato una spesa di 74 miliardi di dollari per costruire 155 nuove inquinantissime centrali a carbone, per un totale di 123 gigawatt, che da sole costituirebbero il 40 per cento delle centrali operative in America.
MENO INVESTIMENTI. Perché se Pechino vuole tagliare le emissioni in modo ingente progetta di costruire 155 nuove centrali in un solo anno? Secondo alcuni osservatori, l’obiettivo potrebbe essere quello di drogare l’economia per dare lavoro alle imprese edili, senza poi utilizzare davvero le centrali. La teoria è fantasiosa, anche perché il Dragone ha promesso di investire cifre altrettanto enormi nelle fonti di energia pulita, dal nucleare al solare fino all’eolico. Ma nel primo trimestre del 2015 gli investimenti in impianti idroelettrici sono crollati per il terzo anno consecutivo e rispetto allo stesso periodo del 2012 sono appena la metà.
COME IL BRASILE. Secondo i piani di Xi Jinping, le province orientali della Cina sono quelle che dovrebbero dismettere le centrali a carbone. Ma la provincia di Jiangsu, ad esempio, ha rilasciato solo quest’anno permessi per costruirne ben 17. Nello Shandong ne sorgeranno 16, nello Shanxi anche di più. Nonostante il divieto del governo centrale, per i funzionari locali di partito questo resta il modo migliore e più veloce di raggiungere gli obiettivi fissati per la produzione energetica. Solo le nuove 155 centrali produrranno tante emissioni di Co2 quanto l’intero Brasile (16esimo nella classifica dei paesi più inquinanti).
POVERO AL GORE. Si capisce che la Conferenza sul clima di Parigi non potrà essere un successo. E dire che l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Al Gore, il re dei catastrofisti, quello che aveva predetto che i ghiacci al Polo Nord si sarebbero sciolti «entro il 2013», aveva fatto pochi giorni fa per la prima volta nella sua carriera di premio Nobel una dichiarazione positiva: «Sono ottimista», si è confidato all’Associated Press. «Abbiamo bisogno di vincere e questa volta stiamo per vincere». Peccato, l’ennesima previsione sbagliata.
Foto Cop21: Ansa/Ap
Foto Cina e Usa: Ansa
Tempi.it
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