Il nostro testo ci ricorda che c’è la città futura che Dio ha progettato per noi, la nuova Gerusalemme. Fuori da Gerusalemme, dove si compie la salvezza, non c’è il nulla ma c’è la nuova Gerusalemme.
«Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura». Se ricordo bene ho predicato per la prima volta questo testo quando un gruppo di amici mi ha chiesto di avere un momento di riflessione e preghiera a Perrero in occasione della morte negli Stati Uniti di un fratello originario da una borgata della zona.
Si trattava di un uomo emigrato subito dopo la seconda guerra mondiale alla ricerca di lavoro oltre oceano, il quale, tuttavia, era rimasto molto legato al paese di origine; vi ritornava quasi tutti gli anni. Ne coltivava anche la memoria scrivendo in patouà delle corrispondenze su La Valaddo, la rivistina dell’omonima associazione che si propone di conservare e valorizzare la cultura tradizionale e la lingua delle valli Chisone, Germanasca, Alta Valle di Susa e Brianzonese.
La sua abitudine a scrivere lo aveva portato a mettere insieme le sue esperienze in un libro
che aveva intitolato Alla ricerca di un futuro. Molti emigranti avrebbero pensato più facilmente alla loro vita come a una vicenda «in cerca di fortuna». Forse quasi istintivamente il nostro fratello era stato portato a pensare non alla fortuna, ma al futuro. Cercare un futuro è diverso dall’andare in cerca di fortuna. La fortuna, se vogliamo le fortune, non esistono. Quando ce n’è un’apparenza, nell’ottica del nostro testo, è comunque effimera, fa parte di una città instabile. La ricerca di fortuna è volare di fiore in fiore con superficialità, senza un progetto serio.
Quando ha scritto le sue memorie, dunque, ha intitolato il libro Alla ricerca di un futuro. Un titolo che riecheggia il nostro versetto. Le nostre parole possono essere spesso un cartello indicatore anche molto al di là di quelli che sono stati i nostri comportamenti. Pure in questo mondo vale la pena cercare un futuro e non limitarsi a spadroneggiare sul presente incuranti di quanto questo costerà alle generazioni che verranno. Anche quando si è molto legati alla cultura e, in generale, al paese natio, vale la pena cercare un futuro, non adagiarsi sulla situazione data, nemmeno quando questa può essere piacevole. La povertà dei villaggi della Val Germanasca è stata sicuramente una delle cause dell’emigrazione, ma questa è avvenuta non solo come conseguenza della miseria, ma anche con delle finalità, con un progetto costruttivo.
La coscienza che la nostra città quaggiù è instabile in un certo senso sorprende sia nell’ottica del nostro fratello, sia in quella dell’Epistola agli Ebrei. L’autore, come sappiamo, afferma, sì, che la fede è «certezza delle cose che si sperano» (letteralmente si potrebbe dire «personificazione di quanto è sperato») ed è, quindi, proiettata verso il futuro sperato; ma poi presenta una lunga galleria, nel capitolo 11, di credenti la cui fede è stata salda e li ha resi in un certo senso perenni. Abele, benché morto, parla ancora (Ebrei 11, 4). Questi credenti, malgrado la forza della loro fede, sono stati comunque «forestieri e pellegrini» (Ebrei 11, 13). Un passato che parla ancora, che non è stato distrutto dal pestaggio della storia e dell’oblio, riceve il suo senso pieno quando diventa un po’ un’immagine dell’attesa.
Anche una città piena di valore è comunque instabile.
La città umana, nell’ottica biblica, nasce male. Il primo costruttore di città è Caino (Genesi 4, 17); poi gli uomini vogliono costruire una città con una torre la cui cima giunga fino al cielo (Genesi 11, 4) ma la confusione dei linguaggi rende non solo instabile la città in costruzione, ma fa sì che rimanga incompiuta. Il testo agli Ebrei considera la crocifissione di Gesù fuori da Gerusalemme come un’indicazione che nemmeno all’interno della stessa città santa è possibile che si compia la santificazione del popolo attraverso il sacrificio del sangue innocente. Troppe pretese, troppo orgoglio, troppa presunzione erano rimasti malgrado i saccheggi con cui la storia e le invasioni avevano colpito Gerusalemme. Le lezioni che i profeti avevano attribuito a un richiamo di Dio quando i nemici avevano colpito Israele erano rimaste inascoltate. Gerusalemme era ancora troppo sicura di sé perché vi si potesse compiere la salvezza dell’umanità.
Il nostro testo ci ricorda, però, che c’è la città futura che Dio ha progettato per noi,
la nuova Gerusalemme di cui parla anche il testo dell’Apocalisse. Fuori da Gerusalemme dove si compie la salvezza non c’è il nulla ma c’è la nuova Gerusalemme; questa non raggiunge il cielo come la torre di Babele, ma è un dono che scende dal cielo nel contesto di nuovi cieli e nuova terra. Dopo aver cercato un futuro serio ma provvisorio su questa terra, quaggiù, noi sappiamo che il senso autentico della vita anche dopo la morte sta nel futuro di Dio.
Ne abbiamo un’anticipazione nella risurrezione di Cristo. La periferia della città è rappresentata dal sepolcro vuoto. Intorno a questo c’è una città futura piena della presenza di Cristo. Guai a noi se facciamo di tutto il mondo un sepolcro, sia pure vuoto. Se la tomba di Cristo è vuota e riceve da questo vuoto tutto il suo senso, il resto del mondo presente e futuro riceve il suo senso dal fatto che Cristo lo riempie e la presenza di Cristo, con noi fino alla fine dei tempi, fa sì che non viviamo in un mondo vuoto.
Allora Ebrei ci dice anche in che cosa la pienezza imprime la sua orma nella nostra vita: «L’amore fraterno rimanga tra di voi»; «La vostra condotta non sia dominata dall’amore del denaro»; «Offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode»; «Non dimenticate di esercitare la beneficenza». Sono piccoli sprazzi di luce che riprendono in parte il decalogo ma ne discendono in un certo modo in dettagli molto più concreti. La ricerca di un futuro serio non è un progetto sulla carta, non pienamente realizzabile. È, invece, un impegno fatto spesso di piccole cose, di piccoli particolari, magari non notati. Possono essere azioni che non fanno notizia, perché siamo anche noi assai più colpiti dagli scandali e dalle malefatte – soprattutto da quelle degli altri – che non dalle cose modeste.
Chi noterebbe che uno non è dominato dall’amore del denaro? Si è molto più facilmente abbagliati da chi fa fortuna, dai Paperoni che accumulano capitali ingenti. Sembra che questi costruiscano città stabili, magari anche distruggendo il paesaggio, i suoli fertili, le risorse da cui vengono il cibo e le bellezze della natura. Il cemento armato sembra la materia prima con cui si può costruire una città stabile. L’America può sembrare un esempio magistrale per questo tipo di scelta.
Con grande modestia un testo di duemila anni fa viene a dirci in modo quasi beffardo che il nostro cemento è instabile.
È lo specchio delle nostre fortune, ma la ricerca di un futuro autentico è un’altra cosa. Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura. Questo è il nostro impegno e al tempo stesso la nostra consolazione.
Claudio Tron
(23 aprile 2014)
Fonte: http://www.riforma.it/
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