La minaccia era stata definita da almeno un anno e in molti avevano lanciato l’allarme per il rischio che ai “terroristi fai da te” che utilizzano armi rudimentali o le loro automobili per uccidere infedeli si unissero anche i foreign fighters, i veterani di guerra del jihad rientrati da Siria e Iraq.
A questo proposito due aspetti vanno evidenziati prima di tentare di dare una dimensione al pericolo per l’Europa rappresentato dai combattenti stranieri. Innanzitutto non si tratta di un fenomeno nuovo. La stupefacente capacità dell’Occidente di sorprendersi di ciò che ben conosce si conferma oggi in tutta la sua puerilità. Non solo abbiamo dimenticato l’impatto degli attentati di New York, Washington, Madrid e Londra di alcuni anni or sono, ma abbiamo rimosso persino i combattenti con passaporto occidentale che militarono (e militano) nella “legione straniera” di al-Qaeda sui fronti afghano, somalo, del Maghreb e dello Yemen. Il fenomeno oggi si è ingigantito soprattutto grazie ad un uso capillare dei social media e di internet per arruolare volontari e dal successo militare e mediatico riscosso dallo Stato Islamico grazie anche alle sue fulminee vittorie in Iraq nell’estate scorsa.
L’altro aspetto che va tenuto in considerazione concerne il sostegno neanche molto indiretto che l’Europa e l’Occidente hanno dato all’arruolamento dei foreign fighters nelle milizie siriane con il sostegno politico, finanziario e militare forniti ai ribelli sunniti per rovesciare il regime di Bashar Assad. Abbiamo appoggiato per anni le formazioni ribelli (e ancora lo facciamo anche se le definiamo “moderate”) nonostante queste arruolassero fin dal 2012 volontari stranieri, europei inclusi, poi confluiti in gran parte nei gruppi armati più forti e più ricchi, lo Stato Islamico e il Fronte al-Nusra, sostenuti finanziariamente dalle monarchie del Golfo. Dare una dimensione precisa al fenomeno foreign fighters oggi è probabilmente impossibile. Lo scorso settembre il coordinatore europeo contro il terrorismo Guilles De Kerchove stimava che “più di tremila europei si sono uniti ai jihadisti dello Stato Islamico in Iraq e Siria”. Un mese dopo un rapporto dell’Onu stimava il loro numero in Siria e Iraq in circa 15 mila provenienti da 74 Paesi. A inizio dicembre un report della Cia reso noto da al-Arabiya riferiva di 12mila combattenti originari di 81 Paesi dei quali 2.500 europei ma ammoniva che il numero di volontari cresceva in continuazione a un ritmo stimato in mille al mese.
In realtà i numeri potrebbero essere molto più alti con forse 5mila volontari con passaporto europeo presenti in Siria e Iraq o rientrati da quella guerra come i fratelli franco-algerini Kouachi. Tra questi forse 3mila tra francesi e britannici, un migliaio di tedeschi, belgi e danesi e altrettanti tra svedesi, olandesi, italiani, norvegesi, finlandesi, irlandesi con piccole aliquote di volontari anche dagli altri Stati europei.
Nonostante la collaborazione della Turchia, che da un anno cerca di intercettare gli aspiranti jihadisti europei (rimpatriandone oltre 500), e del regime siriano, che fornisce informazioni circa gli stranieri uccisi o catturati dai soldati governativi, è difficile avere un quadro esauriente della minaccia. Del resto i servizi di sicurezza interna in Europa faticano non poco a tenere sotto controllo i jihadisti rientrati “a casa” tenuto conto che anche i fratelli Kouachi erano sorvegliati (o avrebbero dovuto esserlo) per le autorità di sicurezza francesi. Le critiche agli apparati di sicurezza di fronte a un atto terroristico possono apparire ingenerose specie perché quando la prevenzione ha successo non fa notizia a differenza di quando fallisce.
Polizia e intelligence, in Francia come in tutto l’Occidente, devono abbinare il monitoraggio dei “foreign fighters” che rientrano con la prevenzione delle azioni dei terroristi improvvisati, privi di addestramento e armi da guerra ma che si sono rivelati comunque letali e perfettamente in grado di rispondere all’appello del califfo al-Baghdadi di uccidere infedeli ovunque e con ogni mezzo. Un compito immane per le forze di sicurezza che tra l’altro proprio in questi ultimi anni hanno subito forti tagli ai bilanci e alle risorse umane in molti Paesi europei inclusa l’Italia.
di Gianandrea Gaiani
Tratto da: http://www.lanuovabq.it/
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