Il disastro ambientale di questi giorni in Emilia Romagna ci interroga sui temi della prevenzione, ma non solo
Abbiamo raggiunto telefonicamente Mario Serantoni, della chiesa metodista di Bologna, del cui consiglio di chiesa è stato membro e presidente. Architetto, si occupa anche di tematiche ambientali e di meteorologia, e vive a Sasso Marconi, dove nei giorni passati una frana ha bloccato l’autostrada. Con lui riflettiamo a partire dal tema della prevenzione: oggi «gli argini vengono controllati dall’alto, con i droni, che però non si accorgono delle falle interne: nel terreno secco si creano dei buchi in cui si infila l’acqua, allagando campagne e cittadine come Cesena e Faenza».
Però il problema è ben più ampio, si chiama cambiamento climatico: «Piogge come quelle di questi giorni un tempo avvenivano in novembre, pensiamo alle alluvioni storiche del Polesine o di Firenze. Continuiamo a dire che il futuro sarà sempre più visitato da fenomeni estremi, ma il futuro è già oggi… in tutto il Novecento ci sono stati nel Mediterraneo due fenomeni descritti come cicloni tropicali: in questo primo ventennio del XXI secolo ne abbiamo già avuti dieci…».
Serantoni richiama la responsabilità anche in un territorio “virtuoso”: «Sebbene ci troviamo in una regione che si è sempre impegnata per regolamentare il territorio con strumenti urbanistici evoluti, di fatto non c’è stata nemmeno qui una vera salvaguardia del territorio, che non significa solo mettere in atto sistemi di protezione, ma adottare usi del territorio diversi. È facile dire che bisogna ridurre la cementificazione, ma bisogna anche pensare alle zone alte, intervenire a monte. Nella zona in cui abito, molti dei danni sono stati causati dalle frane, anche in zone ben piantumate».
Però il problema della costrizione delle acque in spazi innaturali esiste… o no?
A Bologna è esondato un fosso secco da trent’anni, intubato sotto la strada principale. L’acqua ha fatto scoppiare il tubo, rotto l’asfalto, con i danni che si possono immaginare, strada interrotta per tre giorni, traffico intasato… Ma all’epoca eravamo tutti per l’interramento, come a Genova con il fiume Bisagno… mi ci metto anche io nel mucchio… Ci vuole un cambiamento di testa, anche quando si fa la progettazione: va bene valorizzare il verde, ma non è più sufficiente. Faccio solo un esempio. Ho lavorato nel sud della Cina: in città come Shenzhen esistono tombini di 1,20 m con tubi enormi, che rimangono vuoti per undici mesi all’anno. Ma quando arrivano le piogge monsoniche ci sono operai che li aprono e li presidiano per evitare che la gente ci cada dentro…»
Quindi anche le nostre città dovranno attrezzarsi per fare fronte a fenomeni così estremi. Però a monte c’è un problema di cambiamento di mentalità, Lei dice. In che senso?
«Oggi consultiamo il nostro smartphone e pretendiamo di sapere che cosa succede a 500 metri da noi. Ma questa non è consapevolezza della meteorologia, è un uso (anche un po’ strumentale) di informazioni spicce, e questa facilità di accedervi non ci fa capire che continuiamo a produrre il vero responsabile di questa situazione. Mi sembra che le iniziative dei giovani, dai Fridays for future in avanti, siano arrivate al cuore delle persone, ma non alla testa.
Pensiamo anche alla chiusura delle scuole: ci pone in un’ottica di emergenza che mi lascia perplesso, perché è fuorviante rispetto alla consapevolezza del problema. L’amministrazione pubblica reagisce attuando restrizioni molto rigide, che sconvolgono la “vita normale”. Ma il problema è proprio il nostro concetto di vita normale, che non ammette digressioni… Durante il lockdown la natura (per quanto oggi, secondo me, non si possa più parlare di “natura” né di”paesaggio”) si è ripresa i suoi spazi, ma non possiamo pensare che ci salvi un lockdown. Vorrei che l’afflizione per la perdita di vite umane si trasformasse in un impegno maggiore, partendo da modalità di pensiero nuove, dalla consapevolezza che quello che abbiamo fatto fino adesso è sbagliato».
Foto di Roberto Ferrari
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