Chiamati al cambiamento

Una riflessione di Mariano De Mattia, infermiere presso l’ospedale civile di Brescia in prima linea nell’emergenza Coronavirus.

Nella notte tra il 20 ed il 21 febbraio del 2020 la vita di Matteo, un trentottenne italiano che passerà alla storia come il “Paziente uno” di Codogno, si è schiantata come un proiettile nella lastra di vetro temperato della “vetrina Italia”. L’impatto ha immediatamente mostrato tutta la contraddizione che risiede nel principio di infrangibilità, giacché l’iconografia che consegue allo schianto mostra certamente una lastra ancora in piedi ma irrimediabilmente mutata e dissolta nell’oceano opaco di mille crepe, ciascuna delle quali contiene ed esprime un’inattesa ed incredibile scoperta.

Non è vero che i poveri, oltre a rubarci il lavoro e la casa, ci portano malattie mortali capaci di devastare le nostre vite. È invece probabile che i poveri viaggino con zaini vuoti, nei quali non entrano nemmeno virus e batteri, che rischierebbero di morire di fame a loro volta! È invece probabile che uno degli ingranaggi del motore rombante della fabbrica Italia, di ritorno da una trasferta d’affari, abbia inconsapevolmente diffuso il virus della globalizzazione, che per una volta ha deciso di scagliarsi contro chi quotidianamente ne trae vantaggio, a discapito di milioni di vite che pur non sperimentando mai la sussistenza minima non difettano in dignità. È invece probabile che l’Italia sia un paese meraviglioso fino a quando va tutto bene, ma profondamente approssimativo in ogni situazione di vera emergenza. Questo non certo per mancanza di volontà, animo ed iniziative popolari, delle quali tracima per sua intima natura. Il principio che orienta il ricorrente modulo operativo fondato su “tentativi ed errori” è radicato nelle tre più grandi fragilità che ci contraddistinguono come paese, al pari delle infinite bellezze di cui siamo icona mondiale: corruzione, favoritismo e smantellamento dello stato sociale.

Purtroppo siamo un paese che effettua tagli selvaggi su sanità ed istruzione, favorendo la spesa militare, che istituisce un sistema definito “educazione continua in medicina” che invece di garantire la qualità di formazione professionale assicura profitti a chi organizza corsi fittizi, alla fine dei quali i relatori dettano tranquillamente le risposte giuste al questionario di apprendimento, dal cui esito dipende l’assegnazione dei crediti obbligatori che sanciscono e confermano le singole idoneità professionali. Purtroppo siamo un paese che indice bandi di concorso pubblico il cui posto è già assegnato ancor prima che inizino le selezioni, spingendo talenti e persone meritevoli a rinfoltire il numero dei cervelli in fuga. Purtroppo siamo un paese che vende diplomi e lauree, attraverso i sistemi frontali ed on-line della formazione parificata, come fossero popcorn nelle sale cinematografiche; che assegna e distribuisce cariche pubbliche doppie e triple come fossero caramelle date a piene mani negli asili nido; che continua da anni ad essere governata da gente a cui mai alcuna Demos ha dato mandato.

Ma un paese così strutturato, che possibilità ha di poter contare su classi dirigenti, politiche e di pubblico soccorso nei momenti di estremo bisogno? Con quale grado di affidabilità, di competenza e sensibilità affrontiamo l’inatteso?

A premessa fatta, mi presento. Sono un infermiere. Ho sperimentato l’emergenza sia in ambito nazionale che in alcune esperienze recenti di cooperazione sanitaria internazionale nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Come accaduto a tantissimi miei colleghi, in occasione della pandemia di Covid19, sono stato coinvolto anche io nell’area dell’emergenza. Impossibile nascondere la paura di non essere all’altezza di un tale compito, quella di ammalarmi ed infine quella di morire. Paura che, con l’approssimarsi del primo turno di lavoro, si strutturava in terrore fino ad arrivare alla fantasia di disertare e sfuggire al dovere morale, ricorrendo a stratagemmi autolesivi come quelli che venivano utilizzati dai soldati per evitare la chiamata al fronte.

Ricordo perfettamente i giorni e le ore che hanno preceduto il mio ingresso in ospedale. Ho salutato i miei due figli dopo aver trascorso con loro quattro giorni ininterrotti all’insegna di un carpe diemdiurno e notturno; giochi, film, patatine fritte, wurstel e cartoni a mezzanotte, tutti nel lettone, pigiama party e tenda di fortuna in soggiorno fatta con coperte, sedie, tavolo e torcia da campeggio. Ho pensato veramente di vivere ognuno di quei giorni come se fosse l’ultimo…

La concomitante notizia che un mio amico d’infanzia, nonché giovane collega in piena salute, era da alcune ore intubato in rianimazione ha disintegrato di colpo ogni residua speranza di salvarmi grazie alla mia età. Nei giorni in cui ho condiviso il palcoscenico drammatico dell’agonia e delle morte, ho ascoltato, visto, toccato e respirato mille rapidi frammenti di vita, tutti confluenti nel mare magnum di un’umanità flagellata. Ho affrontato i viaggi verso l’ospedale con l’intima convinzione di avere il privilegio di vedere e toccare ciò che nei giorni precedenti trascorsi a casa, in isolamento domiciliare per sintomi influenzali non accertati, avevo solo udito ed immaginato. È stata subito chiarissima la differenza!

C’è una gran differenza tra il crescente numero di decessi annunciato in Tv ed il costruire a mano cataste di morti, chiusi nei sacchi neri e differenziati da un’etichetta. In obitorio, per mancanza di spazio si poteva arrivare ad impilarne fino a tre su una sola barella!

All’arrivo in pronto soccorso ci sono circa cinquanta persone che chiedono aiuto per svariati motivi.  La maggior parte di essi fa immensa fatica a respirare. C’è chi in un corridoio o in un angolo ansima in attesa di conoscere l’esito del tampone.

Ho guardato, nei ritagli di tempo e con la coda degli occhi, l’equipe d’emergenza muoversi come un’orchestra che conosce il brano a memoria e lo suona senza neanche la necessità di guardare il direttore: medici, infermieri e personale di supporto si muovevano come le dita di una stessa mano. La bardatura da capo a piedi, unita al fatto che ero completamente nuovo in quell’ambiente, non mi permetteva di distinguere le figure professionali… ma ancor di più era la manifesta volontà comune di compiere il bene che li rendeva “indistinguibili”.

Il passaggio lungo la corsia è sempre un fiume di richieste, gentili, pazienti e composte. Anche quando effettuate da chi sta veramente male. È come se tutti gli attori della scena, medici, infermieri, operatori socio sanitari, ausiliari, pazienti barellieri, autisti e rianimatori, provassero compassione l’uno per l’altro.

Alla luce di questa montagna di disagi enormi, vite umane perse, sepolture furtive in totale solitudine, revoca del diritto al dolore ed al lutto, nuove povertà e licenziamenti, valanghe di casi di disturbo post traumatico da stress che non tarderanno a manifestarsi, perdita di libertà, contatti e relazioni, congelamento del diritto di sapere, studiare e crescere, le domande che emergono sono infinite.

È stato proprio conveniente e lungimirante smontare lo stato sociale? Siamo sicuri che i cosiddetti anziani siano stati l’anello fragile della catena? Oppure sono stati mandati al massacro come un “bene” sacrificabile? Qualcuno ha capito che quando il virus abbasserà il volume non scomparirà, ma andrà solo nei box a fare manutenzione in attesa del prossimo modello? È chiaro che, se non vogliamo estinguerci totalmente, ciò che è stato possibile in urgenza va pensato e concepito come ordinario e quotidiano? È auspicabile che alla fine della crisi gli eroi e gli angeli non tornino ad essere manovalanza a basso costo? È sufficientemente evidente che tecnologia e strumentazione, in assenza di un numero sufficiente di professionisti adeguatamente formati, restano solo icone pornografiche della scienza apparente? Per una volta nella storia possiamo prendere una solenne bastonatura e, in punta di resilienza, farla diventare motivo di crescita umana? Se ciascun incarico professionale prevede competenza, formazione e prestigio storico, si può pretendere che chiunque desideri aspirare a ruoli di rilevanza pubblica e politica sia in possesso di tali requisiti?

Se è vero che il vento vuole le sue bandiere, se è vero che ha soffiato con forza inaudita scuotendo le coscienze, allora tutti siamo chiamati al cambiamento. Nella certezza della bontà di un aforisma Gandhiano, quotidianamente, cercherò con la mia vita di essere il cambiamento che auspico.

di Mariano De Mattia | Riforma.it

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