Chi sta davvero #dalla-parte-delle-donne?

I manifesti di Pro Vita & Famiglia che mettono in guardia le donne dai pericoli connessi all’aborto farmacologico (con RU-486) hanno suscitato le solite reazioni scomposte degli abortisti, tanto democratici – come al solito – che hanno chiesto la rimozione degli stessi (affissi su spazi privati, con regolari permessi ecc.), perché “offendono le donne e la loro dignità”, o – come dicono alcuni “sono violenti”.
Per chi si dichiara pro vita, l’aborto è un male sempre e comunque perché toglie la vita a un innocente, un bambino minuscolo che alcuni ancora chiamano “grumo di cellule” mentendo e sapendo di mentire, dato che la medicina, la biologia e l’embriologia hanno acclarato da decenni che l’embrione e il bambino sono la stessa persona che poi sarà adolescente, adulta e anziana. La sostanza dell’atto non cambia, sia che il bambino muoia di fame (con il mifepristone), sia che venga aspirato via dal grembo materno, sia che venga avvelenato, sia che venga fatto a pezzi quand’è un po’ più grandino, sia che venga soffocato dopo che è nato.  E qualsiasi sia il metodo con cui si fa l’aborto, la madre arreca a se stessa una ferita profonda perché va violentare l’ancestrale istinto materno radicato nel più profondo del suo essere.
Quel che cambia per lei con la RU-486 rispetto ai metodi chirurgici cui si è accennato più sopra è che il «pesticida antiumano», come lo chiamava Jerome Lejeune, è  molto più pericoloso dell’aborto chirurgico. L’intento quindi della nostra campagna è di informare, rendere le donne consapevoli dei rischi che corrono nello scegliere una pratica che certamente non offre loro alcun vantaggio, ma che  la propaganda abortista e soprattutto le più recenti linee guida del ministro Speranza vogliono a tutti i costi incentivare.
Con l’assunzione della RU-486 (mifepristone) e dopo 48 ore circa delle prostaglandine (misoprostolo o simile), la madre è protagonista attiva dell’uccisione del figlio. Grazie alle nuove linee guida del ministro Speranza, può abortire “comodamente” a casa sua, quindi impregnare di sangue e di vomito le sue cose, i luoghi della sua vita quotidiana e – secondo la letteratura scientifica – nel 56% dei casi vede l’embrione espulso (suo figlio) nel water o sull’assorbente. Dal punto di vista psichico l’evento può essere davvero traumatico (come testimoniano moltissime donne che ci sono passate).
Dal punto di vista fisico, quando tutto va bene, l’aborto avviene comunque nel corso di diversi giorni e con molto dolore: crampi, emorragia (in media il sanguinamento dura dai nove ai 16 giorni), vomito, debolezza, febbre, mal di testa, diarrea, ipotensione sono gli effetti collaterali che si presentano normalmente per quasi tutte le donne (la letteratura scientifica in materia è abbondantissima: per esempio si può far riferimento alla bibliografia riportata da Ingrid Skop, sul Journal of American Physicians and Surgeons, Volume 24, Number 4, Winter 2019, pp.112 -113). E gli effetti secondari sono tanto più gravi e tanto più frequenti, quanto più è avanzata la gravidanza: il ministro, però, ha ritenuto opportuno aumentare il limite di utilizzo della RU-486 da 49 a 63 giorni.
Poi ci sono gli effetti avversi (soprattutto emorragie ed infezioni): dai dati in nostro possesso possiamo calcolare che essi si presentano quattro volte più frequentemente rispetto all’aborto chirurgico. Non solo: una donna su 20 deve comunque completare la procedura con una revisione della cavità uterina (raschiamento).
La RU-486 può provocare la morte: prevalentemente a seguito di infezione grave (da Clostridium Sordellii), ma anche per problemi cardiaci.
Dai dati che abbiamo, l’aborto chimico risulta 10 volte più mortale di quello chirurgico.
Ma i dati che abbiamo sono assolutamente insufficienti: c’è una spessa coltre di silenzio omertoso sulle conseguenze nefaste dell’aborto e della RU-486 in specie. Le stesse Relazioni ministeriali sulla legge 194 del 1978 lamentano che i dati che arrivano sono incompleti e vaghi. Non c’è un’autorità di farmacovigilanza sugli effetti del mifepristone. Quando le donne muoiono di aborto – e di aborto chimico in particolare – lo veniamo a sapere dalla stampa: quindi lo sappiamo solo se le malcapitate hanno parenti abbastanza colti e combattivi che non si rassegnano alla disgrazia, che sollevano la questione del perché e del come e delle eventuali responsabilità, tanto da finire sui giornali. Quante donne sole, povere, appartenenti agli strati socialmente più svantaggiati della popolazione, sono morte di infezione post aborto non lo sapremo mai.
Di contro, il ministro Speranza da questa estate consente la somministrazione della RU-486 fuori dall’ambiente ospedaliero: la donna così si trova da sola a dover decidere se il dolore e l’emorragia sono eccessivi e se è il caso di correre al pronto soccorso per aver salva la vita. A Speranza hanno dato parere favorevole il Consiglio superiore della Sanità e la Società italiana ginecologi e ostetrici? Sì, ma tali pareri sono secretati: del resto non si capisce quali potrebbero essere le motivazioni scientifiche che hanno indotto a rimuovere tutte le cautele previste dalla normativa precedentemente in vigore (che prevedeva appunto che l’aborto doveva svolgersi entro 49 giorni di gravidanza e in ospedale, con monitoraggio ecografico che accertasse la completa espulsione dell’embrione della placenta ecc.).
E allora Pro Vita & Famiglia, con i manifesti tanto criticati e censurati, ha voluto mettere in guardia sui pericoli dell’aborto chimico, #dalla-parte-delle-donne: gli abortisti ci accusano di “offendere le donne e la loro dignità”. E chi nasconde alle donne la verità sull’aborto? Ci sono anche femministe abortiste, senza i paraocchi dell’ideologia, come Renate Klein che la pensano come noi. Ma anche queste voci sono censurate. Chi è, allora, che si preoccupa davvero della salute delle donne?
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