Da trent’anni, Pryp’jat, in Ucraina occidentale, a tre chilometri dalla centrale nucleare di Chernobyl, è una città-fantasma. Quaderni scolastici, banchi, sedie, altalene, stoviglie, panni stesi, radio, libri, oggetti di uso quotidiano, tutto è rimasto come allora, nel momento esatto in cui è stato dato l’allarme radiazioni ed è scattato il piano di evacuazione generale. Pryp’jat, su cui sono sorte leggende nere, bestiari fantastici, videogiochi, un film horror, pellegrinaggi di turisti curiosi, reportage giornalistici e fotografici, è il muto scenario del più grande disastro nucleare in tempo di pace, l’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986. Sull’onda del terrore, l’Italia andò a votare il referendum del 1987, un anno dopo, che fermò del tutto lo sviluppo dell’energia atomica nel nostro paese. “Chernobyl” è una parola che incute timore, paura per la forza dell’atomo, mostro invisibile che uccide anche a decenni di distanza chi vi arriva a contatto. Ma l’incidente al reattore numero 4 della centrale Lenin è dovuto all’errore umano, quasi voluto con grande determinazione, in questo caso. E non è affatto un pericolo intrinseco all’energia nucleare.
La centrale Lenin di Chernobyl, inaugurata nel 1977 e completata nel 1983 con la costruzione del suo fatidico quarto reattore (altri due erano in costruzione nel 1986), era una risposta alla fame energetica di un’Ucraina sempre meno agricola e sempre più urbanizzata. Venne edificata e messa in funzione senza le accortezze che già caratterizzavano i contemporanei impianti elettro-nucleari occidentali. I suoi reattori erano gli RBMK-1000, insicuri di loro, poiché tendenzialmente instabili. Già in sé pericolosi, erano pure privi di edifici di contenimento. Queste strutture, obbligatorie in tutte le centrali occidentali, sono una barriera fra il reattore e il mondo esterno, proteggono il sistema da attacchi esterni e l’ambiente circostante da eventuali incidenti interni. A Chernobyl il reattore era “esposto”, protetto solo dalla struttura dell’edificio della centrale. Inoltre, al fine di produrre anche plutonio ad uso militare (il plutonio, assieme all’uranio arricchito, serve a produrre testate nucleari), era stato ulteriormente abbassato il livello della sicurezza, scegliendo la grafite come moderatore e l’acqua leggera come refrigerante. Questa vera pentola a pressione pronta a scoppiare venne affidata, come spesso accadeva in Unione Sovietica, non a ingegneri o a fisici nucleari, bensì a ingegneri meccanici ed elettrotecnici, con scarsa esperienza di reattori nucleari civili. Il direttore Viktor Brjuchanov aveva precedenti esperienze in impianti a carbone. Il responsabile dei reattori 3 e 4, al momento dell’incidente, era Anatolij Djatlov, che aveva lavorato all’installazione di reattori nucleari militari per sottomarini.
Se già la sicurezza di base era scarsa, la dinamica di quanto accadde nelle primissime ore del 26 aprile rivela un vero omicidio colposo. Per ordine superiore (politico), le cui ragioni sono tuttora coperte da segreto di Stato, anche 25 anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, a Chernobyl venne avviato un esperimento in condizioni estreme. Gli ingegneri del turno di notte, Aleksander Akimov e Leonid Toptumov, su ordine di Anatolij Dijatlov, disattivarono completamente le misure di sicurezza. Secondo un primo rapporto governativo, erano state estratte dal reattore 204 barre di controllo (di grafite) usate per frenare la reazione. L’esperimento andò male. La prima esplosione del reattore scoperchiò l’edificio. La seconda proiettò in aria materiale radioattivo in quantità tale che la nube arrivò in tutta Europa. Il gioco dello scaricabarile partì da subito. Akimov e Toptunov morirono due settimane dopo per sindrome acuta da radiazioni. Per il loro eroico tentativo di frenare gli effetti dell’incidente e il loro deliberato sacrificio, vennero decorati dall’Ucraina con la medaglia al coraggio. Akimov fece comunque a tempo a testimoniare contro Dijatlov: il tecnico avrebbe avvertito il suo superiore del pericolo e per tutta risposta avrebbe ricevuto una minaccia di licenziamento. Dijatlov, condannato a 10 anni di carcere nel 1987 (ne avrebbe scontati poi solo 5) scaricò la colpa sulla segretezza del sistema: nessun membro del personale, nemmeno il direttore, era a conoscenza dell’instabilità dei reattori, sistemi coperti da segreto militare. Nelle sue memorie Dijatlov scrisse che non avrebbe nemmeno messo piede a Chernobyl se ne fosse stato pienamente consapevole. Akimov stesso pare non abbia creduto ai primi rapporti sulla fusione del nocciolo del reattore, perdendo ore preziose. Mentre il direttore dell’impianto, Brjuchanov, in base a quello che sapeva, comunicò a Mosca una notizia rassicurante, sul fatto che il reattore incidentato fosse intatto, facendo ritardare ulteriormente l’allarme. Questo è all’incirca ciò che si sa. Anche se molto altro resta, appunto, ancora coperto da segreto di Stato.
L’emergenza nel dopo-incidente venne gestita in modo tanto criminale quanto l’esperimento che l’aveva causata. Domenica 26 aprile 1986, la città di Pryp’jat visse la sua normale giornata di vacanza: famiglie a spasso, bambini nei parchi giochi, pic-nic all’aria aperta, mentre a soli tre chilometri c’era un “vulcano” che continuava a eruttare radiazioni. Molti curiosi rimasero nei pressi della centrale ad osservare l’attività febbrile di vigili del fuoco e militari, mentre assistevano al grande e insolito incendio del reattore. Il livello di radioattività non venne neppure misurato. L’unico radioprotettore in zona non era dotato degli strumenti necessari. O meglio: questi c’erano, ma sotto chiave e non potevano essere impiegati senza l’autorizzazione di un superiore irreperibile per tutta la giornata. I pompieri vennero inviati a spegnere l’incendio nel reattore numero 4, senza alcuna protezione. I membri della prima squadra, eroi inconsapevoli, morirono tutti di sindrome acuta da radiazioni. Nel frattempo, le autorità cittadine non diedero alcun allarme per “evitare il panico”. Il vento che spirava verso Nord e Ovest, fece sì che la Bielorussia subisse i danni più gravi. Il 27 aprile, il giorno dopo, il personale di una centrale nucleare in Svezia rilevò un’impennata di radiazioni e diffuse l’allarme al resto d’Europa, mentre le autorità sovietiche ancora tacevano sull’accaduto. Fu solo nel primo pomeriggio del 27 aprile, alle 14, che la città di Pryp’jat venne fatta evacuare. Ai cittadini venne detto che si trattava di una misura temporanea, che avrebbero dovuto portare con sé solo l’essenziale. Non sapevano che, in quella città, non sarebbero tornati mai più, se non da visitatori, una volta all’anno, per celebrare il triste anniversario di Chernobyl, un disastro provocato dal comunismo sovietico, non dal nucleare in sé.
di Stefano Magni | Lanuovabq.it
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