Nel mare magnum di commenti, gli interventi del Centro Anscombe e della Fondazione Maddalena Grassi aiutano a fare chiarezza sugli aspetti clinici, etici e giuridici della vicenda senza tralasciare nulla.
Nel mare magnum di appelli, commenti e interventi sul complesso e delicato caso di Charlie Gard, ce ne sono due che meritano di essere ripresi, perché aiutano a fare chiarezza sugli aspetti clinici, etici e giuridici della vicenda senza tralasciare nulla. Il primo è il comunicato pubblicato ieri dal Bioethics Anscombe Centre di Oxford, istituto accademico inglese rinomato per la sua capacità di «affrontare i dilemmi morali che nascono dalla pratica clinica alla luce della legge naturale e degli insegnamenti della Chiesa cristiana». Il secondo è la posizione espressa dalla Fondazione Maddalena Grassi, che da 25 anni si prende cura anche di bambini inguaribili con gravissime disabilità come Charlie.
DIGNITÀ DELLA VITA. Secondo il Centro Anscombe, la sentenza con cui i giudici hanno vietato ai genitori di Charlie di portare il figlio negli Stati Uniti per tentare un trattamento sperimentale e hanno invece permesso ai medici di rimuovere la ventilazione artificiale è ambivalente e presenta diverse criticità. Il problema principale è rappresentato dal fatto che «le opinioni citate dalla corte sembrano riferirsi non all’utilità del trattamento ma all’utilità della vita di Charlie». Il riferimento continuo alla “qualità della vita” del bambino sembra infatti «esprimere un giudizio secondo cui la vita con alcune disabilità non è degna di essere vissuta. Questo modo di ragionare può avere implicazioni pericolose e di vasta portata e deve essere rigettato in modo fermo».
«DECISIONI MORALMENTE DIFENDIBILI». Per quanto riguarda invece «le decisioni finali in questo caso – rimuovere cioè la ventilazione e non autorizzare il trattamento sperimentale – si tratta di decisioni che i genitori in questa situazione potrebbero ragionevolmente prendere per conto di loro figlio. Le decisioni in sé sono moralmente difendibili. La tradizione morale cattolica, come è scritto nel Catechismo, non obbliga l’uso di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi. Quando le possibilità di miglioramento svaniscono e il tempo che rimane diminuisce, il peso e gli effetti collaterali del trattamento costituiscono un motivo per evitare mezzi intrusivi e straordinari e concentrarsi sul controllo dei sintomi». Nel caso di Charlie, infatti, «i dottori che si stanno prendendo cura di lui ritengono che lui possa provare dolore ma che “non sia in grado di reagire ad esso in modo significativo”. Le prove consistono nel fatto che “l’essere ventilati e aspirati, come nel caso di Charlie, può causare dolore”».
IL RUOLO DEI GENITORI. Il centro Anscombe sottolinea nel comunicato il soggetto che deve prendere la decisione, cioè i genitori, perché, ed è il secondo punto critico della sentenza, medici e giudici non possono arrogarsi il diritto di decidere a meno che non abbiano prima dimostrato che «i genitori sembrano agire o cercano di agire in modo davvero irragionevole esponendo il figlio al rischio di un danno significativo, per quanto in buona fede». Questa dimostrazione, al processo, «non c’è stata».
ALLEANZA TERAPEUTICA. Ed è a riguardo della fondamentale alleanza terapeutica tra famiglia e medici che interviene Maurizio Marzegalli, cardiologo, 42 anni di esperienza in ospedale e in terapia intensiva, tra i fondatori della Maddalena Grassi. Parlando al sussidiario.net, dopo aver premesso che «tra le duemila persone che seguiamo ci sono circa cento bambini con gravissime disabilità», spiega che «è indispensabile che ci sia una sinergia fra genitori e ospedali».
DECIDERE INSIEME. Poiché oggi si possono tenere in vita anche «bambini che non possono guarire», essi «si devono assistere anche con cure palliative, ma bisogna sempre accompagnare la famiglia che ha la responsabilità delle scelte». Detto che ogni caso va valutato singolarmente, «decidere quando è accanimento o se è giusto interrompere le cure straordinarie è quanto di più difficile esista. Quando lo facciamo, accade in unità assoluta tra genitori e medici». Se la decisione di rimuovere la ventilazione viene presa, «noi tendiamo ad accompagnare il decesso dei bambini a casa, ma in accordo con l’ospedale e la famiglia. Deve esserci un grosso lavoro di giudizio comune, proprio perché anche la famiglia che ha l’onere di fare queste scelte va accompagnata. Il primo da difendere è sempre il bambino, a cui dare una speranza realistica, navigando tra il pericolo di abbandono e l’accanimento terapeutico».
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