Geremia scrive una lettera a quelli che sono stati deportati in Babilonia, e dice loro, da parte di Dio: «Cercate il bene della città». Questo è anche il nostro compito: cercare il bene del Paese che ci ospita come credenti.
Se voi chiudete gli occhi e io metto in azione una macchina del tempo, vi ritrovate nella Gerusalemme del 590 a. C.: una città mezzo diroccata, che il re di Babilonia ha cinto d’assedio qualche anno prima, e dalla quale ha fatto uscire, insieme col re e con la regina, gli anziani, i sacerdoti, i profeti, gli eunuchi e i principi, e ha fatto uscire anche fabbri e falegnami (29, 1-2).
Diremmo oggi: ha azzerato le autorità, ha esportato i cervelli e ha delocalizzato le aziende. Nella città è rimasto qualche migliaio di persone, che vi si aggirano con l’aria stranita di fantasmi senza saper bene che fare. Persone ridotte a un presente di stenti e private di una prospettiva accettabile per il futuro. Ma non è di loro che voglio parlare.
Voglio parlare di quelli che sono stati trasferiti (deportati) in Babilonia,
Voglio parlare di quelli che sono stati trasferiti (deportati) in Babilonia, i quali non vivono una situazione meno precaria: la gente in mezzo alla quale si trovano parla una lingua che essi non capiscono, pratica una religione che non è la loro, li guarda con sospetto e diffidenza come corpi estranei, forse potenziali nemici.
Se ora io spengo la macchina del tempo e voi riaprite gli occhi, ci ritroviamo nell’Italia di oggi, dove forse non ci sentiamo meno stranieri ed estranei dei giudei trasferiti in Babilonia. Viviamo in un paese dove molti parlano una lingua a noi sconosciuta (il politichese), dove tanti praticano una religione che richiede più atti di devozione che fede in Dio, dove la preoccupazione per le fasce più deboli è sempre meno percepibile.
Il nostro Paese è squilibrato economicamente perché il 10% della popolazione detiene il 46% della ricchezza. Gli anziani sono un problema, perché tenerli in una casa di riposo costa, e l’ente pubblico contribuisce in misura sempre minore e con ritardi sempre maggiori, senza dimenticare i progressivi giochi al rialzo della soglia di non autosufficienza, con conseguente diminuzione dei posti convenzionati.
I giovani sono un problema, perché non trovano lavoro o lo trovano in nero e sottopagato… per non dire dei quaranta/cinquantenni che lo perdono.
La situazione giustifica appieno, anzi impone un convegno come quello di oggi, in cui ci interroghiamo sul «welfare ai tempi della crisi».
A Gerusalemme, fra quelli che non sono stati deportati, c’è anche Geremia, un profeta, cioè uno che si interroga sulle vicende politiche e si sforza di vedere il nesso fra quello che accade e i disegni di Dio: del Signore che ama il suo popolo ma anche lo giudica.
Geremia è preoccupato del «welfare ai tempi della crisi»,
Geremia è preoccupato del «welfare ai tempi della crisi», anche se, non avendo studiato l’inglese, lui lo chiama «benessere» o «bene», anziché «welfare».
E che cosa fa Geremia? Scrive una lettera a quelli che sono stati deportati in Babilonia, e dice loro, da parte di Dio: «Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa, perché dal bene di questa dipende il vostro bene» (29, 7).
Sorelle, fratelli, questo è il nostro compito: cercare il bene del Paese che ci ospita come credenti. E che cosa può significare questo «cercare il bene»?
– Prima di tutto, forse, non sentirci «estranei», cosa che ci paralizzerebbe in una convinzione di marginalità o in una pretesa di superiorità, ma sentirci parte di questo Paese, non integrandoci nel senso di assumerne il costume, la religiosità, ma nel senso di condividere le difficoltà e le contraddizioni, e di interrogarci per vedere se non ne abbiamo una parte di responsabilità.
– Poi, mettere in moto tutte le nostre energie e le nostre strutture,
– Poi, mettere in moto tutte le nostre energie e le nostre strutture, la nostra inventiva e la nostra vocazione al servizio perché la persona sia sempre di più soggetto di diritti e oggetto di sollecitudine. E questo in collaborazione con tutte quelle iniziative, laiche o religiose, che si pongono gli stessi nostri obiettivi, perché se è vero che noi siamo mossi dallo Spirito Santo, è altrettanto vero che non ne abbiamo né il monopolio né l’esclusiva.
– Quindi, come Geremia suggerisce, non ci limitiamo a procacciare il bene di questo paese, che è anche il nostro, ma preghiamo per esso.
Preghiamo per «tutto» il Paese. Preghiamo per i deboli ma anche per i forti, preghiamo per le autorità, per quelli che detengono il potere e per quelli che ambiscono a conquistarlo, preghiamo perché non alimentino il culto della propria personalità… Pregare per le autorità, e non pregare le autorità, significa automaticamente negare loro quell’aura di superiorità e di «semidivinità» che spesso si cuciono addosso. Pregare perché capiscano che il potere è affidato loro non perché facciano i padroni ma perché svolgano un servizio. Preghiamo perché ciascuno e ciascuna possa vedere nel volto dell’altro, o dell’altra, l’immagine di Dio, e portarvi il rispetto e l’amore che a Dio sono dovuti.
– E infine, pregare significa anche guardare al futuro, malgrado tutto, con ottimismo,
– E infine, pregare significa anche guardare al futuro, malgrado tutto, con ottimismo, perché «quando nessun progetto politico o sociale sembra più possibile, quando le possibilità di trasformazione si rivelano caduche, quando sembra impossibile guarire, rimane solo la speranza» (H. Mottu).
Non è poco. Anzi, è tutto, se è una speranza non fatta meramente di evasione e di attesa, ma una speranza fattiva, operosa, lungimirante.
Non per nulla Geremia scrive: «Io so i pensieri che medito per voi, dice il Signore. Pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza» (29, 11).
(29 aprile 2014)
Salvatore Ricciardi
Fonte: http://www.riforma.it/
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