A poco più di due anni dalla loro istituzione, i Cas, Centri di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo, hanno visto crescere il loro “peso” nel sistema di accoglienza in Italia fino a diventarne una componente dominante.
I numeri non raccontano tutto, ma descrivono una realtà in costante espansione: attualmente sul territorio italiano sono presenti 3.090 Cas, mentre i progetti Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati gestito dagli enti locali e teoricamente alla base di tutto il modello di accoglienza, sono soltanto 430, mentre i centri governativi, i Cara, sono 13.
Questo sistema “informale” di accoglienza attraverso luoghi temporanei, affidati a enti di diversa natura, è al centro del rapporto Asilo precario, che si basa sull’osservazione diretta e sulle informazioni raccolte da Medu, Medici per i diritti umani, tra gli ospiti e gli operatori dei sedici centri di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo presenti sul territorio della provincia di Ragusa. In oltre un anno di attività quotidiana nell’ambito del progetto On.To: Stop alla tortura dei rifugiati lungo le rotte migratorie dai paesi sub-sahariani verso il Nord Africa, il gruppo di lavoro ha messo in luce un sistema insostenibile. «La presenza continuativa nei centri – raccontano Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medici per i diritti umani, e Flavia Calò, coordinatrice del team di Medici per i diritti umani in Sicilia e del progetto On.To. – ci ha permesso di verificare le condizioni di accoglienza e i servizi forniti all’interno delle varie strutture, e di individuare gravi criticità nel sistema Cas, ma ci ha permesso anche di formulare proposte e raccomandazioni per un modello di accoglienza più rispettoso delle esigenze di tutti i migranti e in particolare dei più vulnerabili».
Un passo indietro: a cosa ci riferiamo quando si parla di Centri di Accoglienza Straordinaria?
Barbieri: «I Centri di accoglienza straordinaria sono strutture create due anni fa per accogliere i richiedenti asilo, cioè quei migranti che fuggono da situazioni di guerra e violenza nel loro paese e che arrivano in Italia. Si definiscono “straordinari” perché dovrebbero essere delle strutture temporanee ed emergenziali, che quindi dovrebbero essere complementari al sistema di accoglienza strutturale e ordinario. Quello che abbiamo visto in questo rapporto, però, è che il sistema di accoglienza in Italia in questo momento è capovolto: ciò che avrebbe dovuto essere temporaneo è diventato l’asse portante dell’accoglienza. Un numero ci permette di capirlo al meglio: i Cas in questo momento ospitano oltre il 72% di tutti i migranti accolti nei centri di accoglienza italiani, ovvero poco meno di tre migranti su quattro, mentre il sistema ordinario, basato sul sistema Sprar, che ha maggiori garanzie e fornisce maggiori servizi, ha in questo momento un numero marginale di accoglienze. Si verifica quello che spesso in Italia succede, cioè il temporaneo, il provvisorio, diventa strutturale».
Quali sono i punti salienti di questo rapporto?
Barbieri: «Ci sono due elementi di interesse in particolare: prima di tutto il nostro team ha stilato questo rapporto sui 16 Cas della provincia di Ragusa non sulla base di una o due visite per ciascun centro, come successo in passato, per esempio quando abbiamo parlato dei Cie, ma lavorandoci all’interno. Il nostro teammedico da oltre un anno sta lavorando quotidianamente dentro questi centri, e questo ci permette di conoscere da dentro il funzionamento del sistema. Il secondo elemento di interesse è che i Cas della provincia di Ragusa non hanno criticità particolarmente gravi se comparate ad altri territori, soprattutto del sud Italia: nella provincia di Ragusa ci sono meno criticità rispetto ad altri luoghi, che sono stati colpiti da scandali di vario genere, e anche la prefettura di Ragusa è sempre molto presente nel controllo. Questa situazione rende il rapporto più significativo, perché dimostra che anche in una situazione non particolarmente critica, non “al limite”, il sistema dei Cas non funziona, perché è un sistema basato sull’emergenza e quindi non adeguato a rispondere a una necessità, quella dell’accoglienza, diventata strutturale».
È possibile fare una fotografia sintetica delle condizioni che vi siete trovati di fronte o c’è un’eccessiva eterogeneità tra le strutture?
Barbieri: «Il fatto di parlare di un sistema fondato sull’emergenza implica che ci sia una forte disomogeneità sul territorio, nella gestione dei centri e anche nella possibilità di controllo. Basti pensare che i Cas sono gestiti dalle realtà più diverse, da imprese private fino a grandi e piccole cooperative, alberghi, addirittura bed&breakfast. Si vedono le situazioni più svariate, che sull’onda della cosiddetta emergenza forniscono un’accoglienza assicurando però standard e servizi sicuramente inferiori nelle tutele rispetto a quello che è il sistema ordinario Sprar. Possiamo definire i Cas dei centri Sprar di second’ordine».
Quali sono i problemi principali che avete ravvisato all’interno dei Cas?
Calò: «Quello che raccontiamo in questo rapporto è basato sull’insieme delle testimonianze, sia dei migranti ospitati dentro i Cas, sia degli operatori. Quello che abbiamo visto sono alcune aree critiche, come per esempio la posizione delle strutture, che sono alcune volte molto lontane dai luoghi abitati. In questi luoghi c’è spesso una scarsa disponibilità di aree comuni, e la formazione stessa degli operatori, che molto spesso facevano altro nella vita e sono stati poi impiegati all’interno di queste strutture emergenziali, è insufficiente. Anche nel campo dell’assistenza sanitaria, che è molto carente, abbiamo notato spesso delle gravi mancanze. L’assistenza psicologica e legale, la mediazione culturale, così come l’insegnamento della lingua italiana, sono tutti elementi carenti ma di grande importanza, perché sono fondamentali nel percorso della richiesta d’asilo, sono fondamentali per “rimettere insieme i pezzi” del richiedente asilo, per rimettere insieme quelle che sono le sue necessità».
C’è un termine, “dignità”, che spesso viene dimenticato quando si parla di migranti. Spesso, infatti, si sottolineano aspetti economici o numerici, dimenticando che dietro a ogni unità di quei numeri c’è una persona, una storia, delle relazioni. Questo bisogno di dignità viene soddisfatto dai centri che avete visitato?
Calò: «Diciamo che viene lasciato alla capacità individuale dei singoli operatori dei centri, e questo denota una mancanza di strutturazione del servizio. Chi viene accolto all’interno dei Cas sono migranti forzati, persone che scappano da guerre, da persecuzioni religiose o etniche, per cui arrivano sul nostro territorio portando con sé delle ferite psicologiche importanti. Ecco perché è importante ridargli quel senso di dignità anche attraverso i servizi offerti».
Barbieri: «In questo senso noi diamo molta enfasi all’importanza di predisporre dei servizi mirati per i più vulnerabili all’interno del sistema di accoglienza, in particolare per coloro che sono stati vittime di torture, violenze intenzionali, trattamenti inumani e degradanti. Questo vale sia per quanto accaduto nel loro paese d’origine, sia lungo la rotta: non dimentichiamo che quasi tutti passano per la Libia, passano periodi di tensione e di violenze inaudite. Le persone che arrivano hanno ferite psicologiche e fisiche enormi, e c’è bisogno di un approccio mirato per dare loro la possibilità di superare le ferite, che siano fisiche e visibili o che siano psicologiche e nascoste».
Calò: «Abbiamo incontrato 200 migranti, di cui 150 sono poi stati presi in carico dal team medico–psicologico. Questo significa che il 75% delle persone ascoltate ha subito trattamenti inumani e degradanti, o traumi estremi come la tortura, e questo ha conseguenze psicologiche importanti, quelle che in medicina si definiscono “disturbo post traumatico da stress complesso”. Si tratta di una frammentazione dell’identità che provoca gravi disturbi sulla memoria autobiografica. È possibile provare a riabilitare la persona attraverso dei servizi che riescano a integrare i vari pezzi, dai servizi psicologici riabilitativi al servizio legale che lo accompagna nel racconto, nella ri-narrazione della propria storia, fino ad arrivare a una condizione di stabilità che possa poi portare alla protezione, che possiamo considerare come un riscatto rispetto a quello che la persona ha subito, un riconoscimento nei confronti della sua storia».
Come si potrebbe provare a ribaltare questa logica dell’accoglienza che di per sé è capovolta?
Barbieri: «In realtà non è così complicato, almeno sulla carta, però poi passare ai fatti spesso è difficile. Il sistema Sprar, sperimentato ormai da anni, è gestito a livello territoriale dai Comuni, e i centri hanno tutta una serie di servizi, di standard, di garanzie, che i Cas non possono dare. Ecco, il sistema Sprar dovrebbe essere l’elemento portante, in quanto strutturale, e non un’esperienza marginale dal punto di vista numerico. Bisognerebbe quindi dare più spazio ai centri Sprar, crearne di nuovi, e sarebbe necessario superare la volontarietà attuale. In questo momento i Comuni, gli enti territoriali, accedono volontariamente ai bandi Sprar, mentre bisognerebbe pensare a una ripartizione obbligatoria su tutto il territorio nazionale in maniera tale che in ogni comune, ovviamente in modo proporzionale alla popolazione e alla possibilità economica, venissero attivati dei piccoli centri, integrati nel territorio, che facilitino da un lato l’accoglienza dei migranti e dall’altro l’accettazione da parte del territorio ospitante. Va comunque detto che le esperienze virtuose già ci sono».
Probabilmente c’è anche un problema, anzi due, di ordine superiore: uno è che andrebbero sicuramente snelliti i tempi di analisi delle domande di asilo, mentre allo stato attuale si rimane in un limbo privo di alcun termine temporale, mentre l’altro è che probabilmente non basta una risposta a livello nazionale, ma sarebbe necessario arrivare finalmente a un diritto d’asilo europeo che superi la stortura costituita dal trattato di Dublino, basato sulla geografia. Non credete sia necessario allargare la dimensione della risposta?
Barbieri: «Sicuramente. I flussi attuali di migranti necessitano di una gestione a livello europeo, ordinata, coordinata e proporzionale, e anche di una risposta della comunità internazionale in quanto tale. Il flusso dei migranti forzati è determinato da situazioni geopolitiche e di conflitti complessi che interessano l’intera comunità internazionale, come quello in Siria o quello in Libia. In questo momento non c’è una risposta europea: anche se sulla carta dovevano partire i ricollocamenti dall’Italia verso altri Paesi europei, allo stato attuale, da settembre dell’anno scorso, siano stati ricollocate dall’Italia solamente 500 persone, quando era stato stabilito che nell’arco di 24 mesi ne sarebbero state ricollocate dall’Italia circa 40.000. C’è un blocco da questo punto di vista e questo è molto grave. L’Unione europea sembra intenta a voler bloccare le persone, più che a bloccare la causa della fuga di questi individui dal conflitto».
Foto: via pixabay.com
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