È vero che di fronte alle turbolenze internazionali, al rischio di una nuova guerra mondiale, alle guerre in corso, alle stragi di civili perpetrate nel mondo, il collasso umano e strutturale delle carceri passa in secondo piano. Ed è altrettanto vero che destra e sinistra, nei confronti dei diritti dei detenuti, sembrano davvero i ladri di Pisa, che di giorno fanno finta di litigare e di notte vanno a rubare insieme. Però in carcere si continua a morire, e non se ne vede la fine. Non da oggi ma da tanti anni. Non solo in Italia ma in tutta Europa. In Italia, sono già quindici i detenuti che si sono tolti la vita, ed è arrivata la notizia del suicidio di un migrante, in detenzione amministrativa, nel Cpr di Ponte Galeria a Roma.
Nel 2020, secondo i dati diffusi dal Consiglio d’Europa (il famoso programma Space: Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa), il Paese con il maggior numero di suicidi rispetto alla popolazione penitenziaria complessiva (custodia cautelare e definitivi) era la Francia con 27, suicidi ogni 10 mila detenuti, seguita da Malta con 25,22 sempre ogni 10 mila. C’erano poi la Lettonia, il Portogallo e il Lussemburgo con tassi compresi da 18 e 20. La Spagna, con 11,3 suicidi ogni 10 mila detenuti, era a un livello molto simile a quello dell’Italia, mentre la Germania si fermava a 5,3 e la Polonia a 4,1.
Già, il suicidio in carcere. Una sorta di mistero nel mistero. Quanto incidono le condizioni di
detenzione nel rischio suicidario? E gli altri fattori legati alle relazioni familiari, all’esecuzione di pena (reati ostativi per esempio), alle relazioni sociali interne, alla nazionalità, al livello di
istruzione, al sovraffollamento, alle malattie, e via dicendo? Sono pochi gli studi, piccoli i numeri e di conseguenza limitate le ipotesi. E la risposta pertanto è incerta. Si naviga a vista.
Se il suicidio esterno, quello dei liberi, è stato studiato e analizzato dai tempi di Émile Durkheim in poi, quello interno a un carcere è ancora avvolto nel mistero. Meglio: si possono immaginare i motivi che portano una persona a decidere di suicidarsi in carcere e trovare mille plausibili ragioni, ma i numeri non consentono nessuna rilevanza certa e nessuna spiegazione valida al punto di dire che “questa” (un’ipotesi qualunque o più ipotesi raggruppate) è la ragione.
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Il filo che unisce quei Paesi europei perciò è solo uno: l’attuale modello di carcerazione ovvero il senso sociale della pena detentiva. Il suicidio in carcere è un mistero anche se, nei fatti, non è un mistero, perché è semplicemente un’emergenza. Misteriosi se mai sono i ritardi politici nell’affrontare l’emergenza, che è emergenza da quando esiste il carcere, dal “Bisogna aver visto” di Piero Calamandrei. Ci vuole poco, infine, a trasformare il suicidio in carcere in fenomeno di natura “inevitabile” (Cit. Nordio). Dimenticandosi che la vera emergenza è proprio il modello di esecuzione di pena in carcere, che non rieduca, non punisce, non riabilita, non ripara, non previene.
Il carcere semplicemente oscura, allontana, opacizza, annulla, trasforma una persona in rifiuto solido detentivo. Attenzione però: è quello che tutti, o quasi tutti, vogliono.
Non possiamo, a questo punto, che dare ragione ad Adriano Sofri, che si chiede: “Quando si parla dell’aumento dei suicidi in carcere bisognerebbe in realtà rovesciare la domanda: come mai se ne ammazzano così pochi? Come riescono a sopportare quella disperazione quotidiana?”.
https://www.thedotcultura.it/carcere-nessuno-cerca-di-capire-e-fermare-il-fenomeno-dei-suicidi/
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