La chiusura dell’inchiesta sulla morte della bracciante Paola Clemente, morta il 13 luglio 2015 nei campi di Andria, ha portato a 6 arresti, ma si è soltanto scalfita la superficie del fenomeno.
Negli ultimi anni, quando si parla del lavoro agricolo nei campi, è diventato difficile non pensare al fenomeno del caporalato, quel complesso sistema di sfruttamento che parte dal vertice del sistema dei prezzi dei prodotti della terra e scende fino ai lavoratori, privati di ogni diritto e costretti a orari sfiancanti. Il fenomeno, che esiste da decenni, è cresciuto di anno in anno fino a quando la politica non ha più potuto voltarsi dall’altra parte.
La scorsa settimana, in particolare, si sono chiuse le indagini sulla morte di Paola Clemente, una bracciante agricola originaria della provincia di Taranto, morta il 13 luglio del 2015 nelle campagne di Andria. La donna lavorava nei campi di uva, ogni notte si alzava e percorreva 300 chilometri per raggiungere Andria alle 5 e lavorare fino al pomeriggio sotto il sole per poco più di due euro all’ora. Per la sua morte sono finite in carcere 6 persone, e durante il processo si cercherà di ricostruire la catena di sfruttamento costruita intorno a questa vicenda. Tuttavia, la norma utilizzata in questo caso non è quella più recente, approvata lo scorso anno, ma una del 2011, nata in seguito alla protesta dei braccianti agricoli di Nardò nella stessa estate, guidati da Yvan Sagnet, oggi attivista per i diritti dei lavoratori e laureato in ingegneria delle telecomunicazione al Politecnico di Torino.
L’inchiesta appena conclusa sulla morte della bracciante Paola Clemente è stato uno degli ultimi casi in cui è stata applicata la legge 138 del 2011, la prima norma contro il caporalato. Quali conseguenze ha portato?
«In effetti purtroppo la nuova legge, la 199 del 2016, non verrà applicata al processo per la morte di Paola Clemente perché vige il principio della non retroattività della legge penale. Le indagini rispetto a questo dramma erano partite già nel 2015, subito dopo la morte di Paola Clemente, mentre la nuova legge è stata appena approvata. Di conseguenza, per il processo su Paola Clemente verrà soltanto applicata la legge 138/2011, cioè l’articolo 603bis. I magistrati ci dicevano che avrebbero potuto arrestare più persone se la legge fosse entrata in vigore prima di questo caso, ma stiamo comunque parlando di un passo avanti».
Che cosa cambia tra le due norme?
«La prima legge contro il caporalato è la 138 del 2011, che ha portato all’introduzione dell’articolo 603 bis. In realtà questo fenomeno esiste in questo Paese da decenni, anche se è diventato un reato penale soltanto nel 2011. Questo è stato il risultato di un lungo percorso di lotta che mi ha visto impegnato con alcuni compagni durante lo sciopero di Nardò nell’estate di sei anni fa. Una volta raggiunto quel risultato non abbiamo comunque smesso di lottare, perché volevamo la modifica di quella legge, dell’articolo 603bis, perché ci siamo resi conto che quella legge era incompleta, nel senso che puniva soltanto la figura del caporale. Il problema è che il caporale è soltanto l’ultimo anello di un sistema di sfruttamento che vede al centro soprattutto le imprese e il datore di lavoro, perché è il datore di lavoro italiano, l’agricoltore, che invece di assumere direttamente il lavoratore nei centri preposti, come i centri per l’impiego, si avvale del caporale. Finalmente nella seconda metà del 2016 il governo ha recepito la nostra richiesta di estendere quel reato anche al datore di lavoro, e poi sono stati introdotti anche altri strumenti di contrasto al caporalato: per esempio è stata introdotta anche la confisca dei beni a tutti i soggetti che concorrano all’attività di sfruttamento. Questo senza dubbio è un elemento importante e la legge rappresenta uno strumento prezioso».
Nonostante la legge 199/2016 fornisca strumenti a tutti i soggetti per fare un lavoro migliore, evidentemente non piace a tutti. Infatti, sabato scorso a Bari alcuni imprenditori agricoli sono scesi in piazza per protestare sia contro gli arresti sia contro la legge 199/2016. Si dice che le variabili in campo siano troppe per seguire rigidamente le regole, ma quali possono essere le vere ragioni per opporsi a una legge che impedisce di sfruttare le persone?
«L’imprevedibilità del lavoro agricolo è sempre stato l’alibi usato da alcuni imprenditori, perché qui c’è un tentativo di non rispettare le regole, ma è sempre stato così, è un fatto culturale. Abbiamo l’impressione che con questa manifestazione questi imprenditori chiedano la libertà di sfruttamento, mentre noi continuiamo a mettere la legalità e il rispetto delle leggi al centro delle nostre azioni, quindi c’è una contrapposizione tra la nostra e la loro visione delle cose».
Quindi non è possibile un dialogo?
«In realtà sì. Io in parte capisco alcune delle loro rivendicazioni: per esempio è vero che i prezzi sono bassi, che la crisi internazionale ha colpito duro, che la concorrenza è sleale, ma questa è una battaglia diversa, che possiamo e dobbiamo fare insieme. Non rispettare le regole è una cosa molto diversa: non è che siamo in una repubblica delle banane in cui ognuno fa quello che vuole, perché ricordo che il non rispetto delle leggi comporta il fatto che poi alcuni lavoratori vengano sfruttati, proprio come Paola Clemente.
Se non applichiamo neanche quella legge, che è stata il frutto di una lunga battaglia, allora vuol dire che non ne usciamo più, e quindi quella rivendicazione va fatta in un’altra direzione. Noi, l’ho detto più volte, dobbiamo iniziare a dare battaglia anche contro chi gestisce il mercato agricolo, cioè la grande distribuzione, che insieme ad alcune imprese è l’altro principale responsabile di tutto quello che avviene, perché è lei a dettare i prezzi dei prodotti; la concorrenza sleale tra tutte queste catene che fa sì che molti dei nostri imprenditori, soprattutto i contadini, non ce la facciano a sostenere prezzi sempre più bassi e senza regole, anche perché non si capisce quali siano i criteri con i quali la grande distribuzione imponga i prezzi. Questi contadini, questi imprenditori, non ce la fanno a sostenere alcuni costi, tra cui il costo del lavoro, e sono costretti in parte a usare queste forme di sfruttamento per mantenersi sul mercato. Tuttavia, questo non può essere un alibi: è una battaglia che possiamo fare insieme, braccianti e contadini, al fine di far valere la nostra voce presso questo gigantesco nemico in comune che abbiamo, che è la grande distribuzione delle multinazionali dell’agroalimentare».
Ieri a San Ferdinando, nei pressi di Rosarno, il sindacato Usb ha organizzato una riunione informativa per informare i braccianti a proposito dei loro diritti. È una strada giusta?
«Sì. Questa nuova legge funzionerà e sarà efficace se i lavoratori prenderanno coscienza dei propri diritti, perché per arrestare un caporale è necessario che i lavoratori denuncino. Se il bracciante non dà il nome e il cognome del suo sfruttatore, difficilmente la magistratura le forze dell’ordine andranno ad arrestare questo sfruttatore. Nel caso di Paola Clemente la magistratura ha potuto lavorare perché c’è stato un dramma, quello della morte di una persona, ma in generale i lavoratori devono iniziare a prendere coraggio, prendere coscienza. Io capisco che siamo in un momento di crisi e che quindi sia difficile denunciare il proprio datore di lavoro per paura di perdere il poco che c’è, però se non si parte dal lavoratore sarà molto difficile cambiare qualcosa. Nel 2011, in quello sciopero di cui vi parlavo e che mi ha visto protagonista, noi abbiamo denunciato e nonostante le difficoltà abbiamo portato avanti questa protesta che poi alla fine si è rivelato determinante, abbiamo ottenuto tanti risultati, come la legge contro il caporalato, gli arresti, molti dei miei compagni hanno finalmente ottenuto un contratto di lavoro, quello che non vedevano da decenni, quindi grazie alle lotte e alla consapevolezza si possono ottenere più diritti».
Immagine: via Pixabay
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