Bullismo e cyberbullismo: c’è ancora vuoto normativo

cyberbullismo-definizioneAvv. M. Giovanna Musone – Nel nostro Ordinamento Giuridico, come anche per gli ordinamenti degli Stati membri, non c’è una normativa che regolamenti o definisca giuridicamente il bullismo o il cyberbullismo.

Sebbene i casi di bullismo e cyberbullismo siano in costante aumento tra gli adolescenti, manca una fattispecie criminosa che disciplini o sanzioni tali fenomeni. Il bullo mette in atto un’aggressività che si può sostanziare sia in comportamenti sistematici di prevaricazioni e molestie quanto di una vera e propria violenza verbale e psicologica (derisione sull’aspetto esteriore, sul modo di vestire, attraverso risate e complicità del gruppo a scapito del malcapitato che riceve, ogni giorno, angherie e maltrattamenti).

Le conseguenze sulla vittima sono devastanti. Ci troviamo, quindi, di fronte a comportamenti illeciti e illegittimi che hanno portato la giurisprudenza ad interrogarsi, in particolare, sulle capacità e maturità che un minore ha per comprendere il significato delle proprie azioni.

Come sappiamo il nostro diritto penale, ritiene il minore non imputabile; infatti, l’art. 85 del c.p. recita che, imputabile è colui che al momento della commissione del fatto “era capace di intendere e di volere”. Condizioni soggettive che si presumono in capo a chi abbia compiuto il diciottesimo anno di età. Il problema sta, poi, nello stabilire quale sia il limite di età a partire dal quale il soggetto può ritenersi capace di intendere e di volere.

La soluzione offerta dal nostro diritto penale è la seguente:

1) per il minore inferiore degli anni 14 si prevede una presunzione assoluta di incapacità, «… non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni» (art. 97 c.p.);

2) per i maggiori degli anni 18 una presunzione di capacità per presunta maturità;

3) i minori fra i 14 e i 18 anni, nessuna presunzione né di capacità né di incapacità, dovendo il giudice anche d’ufficio, accertare caso per caso l’imputabilità o meno. «…è immutabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compito i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere, ma la pena è diminuita» (art. 98 c.p.).

Pertanto, anche a seguito degli ultimi e sempre più frequenti episodi di bullismo da parte di minori, gran parte della dottrina ha fermamente appoggiato la necessità di una modifica legislativa finalizzata ad ottenere un abbassamento dell’età per essere ritenuti imputabili e che rifletta adeguatamente la precocità dello sviluppo intellettivo che oggi, le scienze del comportamento tendono a considerare un dato incontrovertibile (MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale, Milano, 2004, 227).

In realtà, sarebbe auspicabile soprattutto una iniziativa legislativa volta a colmare il vuoto normativo, creando una prescrizione che nello specifico contempli il reato in argomento e lo sanzioni. Ci troviamo innanzi ad un’inerzia del legislatore che, tuttavia, non ha impedito condanne degli atti di bullismo da parte della Magistratura.

Gli atteggiamenti del bullo possono, però, rientrare nella fattispecie criminosa delle percosse (art. 581 c.p.). Il concetto di percossa, è in verità molto ampio e comprende tutte quelle condotte che si estrinsecano nell’atto di procurare alla vittima una sensazione dolorosa senza però cagionare alcuna malattia nel corpo o nella mente. Laddove, invece, le botte, gli schiaffi, gli spintoni e gli strattonamenti dovessero provocare nella vittima, oltre alla sensazione dolorosa, anche una malattia fisica o psicologica, costui risponderà del reato più grave di lesioni personali, disciplinato dall’art. 528 c.p. Va aggiunto, il bullo nella sua azione criminosa adopera un’arma molto frequente, quale la minaccia. In questo caso, la tutela è apprestata dall’art. 612 c.p. (“Minaccia”).Invero, secondo un’autorevole dottrina (ANTOLISEI) si ha minaccia, ogni qualvolta l’autore del reato prospetti nella propria vittima, la possibilità di un male futuro ed ingiusto.

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che perché si configuri il rato in questione è sufficiente la coscienza e volontà di minacciare altri di un danno ingiusto, provocando nella vittima uno stato di intimidazione, tale da turbare o comunque limitare e/o diminuire la propria libertà morale, senza che in tale volontà sia compreso anche il proposito di tradurre in atto il male minacciato.

Il bullismo può, inoltre, integrare anche la fattispecie penale del delitto di “atti persecutori”, meglio conosciuto come stalking. Il reato, introdotto dal legislatore nel 2009, all’art. 612-bis c.p., sanziona penalmente colui che con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare nello stesso, un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Sul piano processuale, poi, nel caso di atti persecutori tra minori, il reato è perseguibile d’ufficio. Attualmente, dato il vuoto normativo, il bullismo potrebbe determinare tutti e tre gli eventi sopra citati.

Il cyberbullismo, invece, consiste in atteggiamenti e comportamenti finalizzati ad offendere, spaventare, umiliare la vittima tramite i mezzi elettronici (M. BOSCO). Ciò che lo contraddistingue sono proprio le modalità e gli strumenti utilizzati dall’agente, da individuarsi principalmente nell’uso delle nuove tecnologie, ma soprattutto nell’uso di Internet e dei social network. In genere, la vittima è destinataria dell’invio di sms indesiderati; telefonate offensive o minacciose; l’inoltro di e-mail altrettanto ingiuriose; il caricamento di video o filmati su Youtube, o anche su social network (Facebook, Twitter etc.).

Anche per il cyberbullismo, vi è l’assenza di una norma incriminatrice ad hoc che lo disciplini e lo sanzioni, cosicché anche in questo caso sarà necessario ricorrere ad ipotesi delittuose già presenti nel panorama penalistico italiano e affidarsi alla giurisprudenza.

Essa è solita ricorrere ai reati di diffamazione online; il reato di molestia o ingiuria con il mezzo telefono; ed anche il reato di stalking. Rispetto alla diffamazione online, un’importante sentenza della Cassazione ha chiarito che “(…) l’immissione di scritti lesivi dell’altrui reputazione nel sistema Internet  integra il reato di diffamazione aggravata (art. 595 c.p.p., comma 3).

Esso si consuma anche se la comunicazione con più persone e/o la percezione di costoro del messaggio non siano contemporanee (alla trasmissione) e contestuali (tra di loro), ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri ovvero dall’agente.

Ma, mentre nel caso di diffamazione, commesso ad esempio a mezzo posta, telegramma, o email è necessario che l’agente compili e spedisca una serie di messaggi a più destinatari, nel caso in cui egli crei e utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes, sia pure nel ristretto (ma non troppo !) ambito di tutti coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica, e nel caso di siti a pagamento, la legittimazione a connettersi (Cass. Sez., V, 21 giugno 2006, n. 25875; Cass. Sez. IV, 17 novembre 2000, n. 4741).

Si è già detto in materia di imputabilità o meno del minore, non resta, allora, che aggiungere una ulteriore precisazione, questa volta con riferimento alla persona offesa dal reato (anch’essa minore), ossia la possibilità per essa, di sporgere personalmente querela. A

tal proposito, l’art. 120 c. 2 del c.p. prevede che “per i minori degli anni quattordici, (…) il diritto di querela è esercitato dal genitore (…)”. Mentre, “I minori che abbiano compiuto gli anni quattordici, (…) possono esercitare il diritto di querela, e possono altresì in loro vece, esercitarlo il genitori e o il tutore, nonostante ogni contraria dichiarazione di volontà, espressa o tacita, del minore (…)” (comma 3).

da: Orizzontescuola.it/

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