Nel gennaio del 2013 la Cigl aveva presentato un reclamo al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa sulla «violazione del diritto alla salute delle donne e dei diritti lavorativi dei medici non obiettori di coscienza determinata dall’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza e dalla disorganizzazione degli ospedali e delle Regioni in materia di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza». L’aborto è diventato una questione sindacale.
Il Consiglio d’Europa, dopo più di tre anni, ha dato ragione alla Cigl. «Le donne che cercano accesso ai servizi di aborto», si legge nelle conclusioni elaborate dal Consiglio, «continuano ad avere di fronte una sostanziale difficoltà nell’ottenere l’accesso a tali servizi nella pratica, nonostante quanto è previsto dalla legge. In alcuni casi, considerata l’urgenza delle procedure richieste, le donne che vogliono un aborto possono essere forzate ad andare in altre strutture (rispetto a quelle pubbliche), in Italia o all’estero, o a mettere fine alla loro gravidanza senza il sostegno o il controllo delle competenti autorità sanitarie, oppure possono essere dissuase dall’accedere ai servizi di aborto a cui hanno invece diritto in base alla legge 194/78».
Tutto questo può «comportare notevoli rischi per la salute e il benessere delle donne interessate, il che è contrario al diritto alla protezione della salute». Infine, le strutture sanitarie «non hanno ancora adottato le misure necessarie per rimediare alle carenze nel servizio causate dal personale che invoca il diritto all’obiezione di coscienza, o hanno adottato misure inadeguate». In merito, invece, alla discriminazione che subiscono i medici abortisti, questi sono vittime di «diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti».
Prima di spiegare perché, dati alla mano, tutto quanto ha affermato il Comitato europeo dei diritti sociali ha la portata di una menzogna di dimensioni altrettanto europee, sottolineiamo un inciso del passaggio prima citato che è rivelatore di come in Europa si intenda l’aborto. Il Consiglio afferma che alcune difficoltà interne alle strutture ospedaliere possono dissuadere le donne dall’aborto. Ma la legge 194 fa intendere che l’aborto deve essere l’extrema ratio e che consultori, ospedali, medici dovrebbero far di tutto per dissuadere la donna da questa scelta (poi che la norma sia scritta in un modo tale che questi oneri possano tranquillamente rimanere sulla carta è un altro discorso). Se una donna decide di non abortire perché ci sono lungaggini amministrative- operative, vuole dire che il pericolo alla sua salute non era così serio come invece prevede la legge all’art. 4 e che dunque non c’era necessità di abortire. Per paradosso, l’ospedale che si attarda a procurare un aborto, seppur in modo irrituale, ha fatto il suo dovere: stornare la donna dalla decisione di abortire. Ma per il Consiglio l’aborto ex lege 194 non deve essere l’ultima spiaggia, ma la prima scelta.
Inoltre, il Consiglio afferma esplicitamente che la legge 194 considera l’aborto come diritto. Molti, anche in casa cattolica, sostengono invece che la 194 qualifica l’aborto come reato con alcune scriminanti. Ma non è così, l’aborto è un vero e proprio diritto soggettivo, così come limpidamente affermato dal Consiglio d’Europa. Veniamo però al punto principale: i troppi obiettori non permettono alle donne di abortire in tempi ragionevoli. Magari fosse vero. Volentieri vorremmo dare ragione al Consiglio d’Europa e ci potremmo solo rallegrare di questo. E, invece, in Italia chi vuole abortire di certo non trova un inciampo nei medici obiettori. Sono diverse le fonti che lo confermano.
La relazione sullo stato di attuazione della 194 consegnata in Parlamento lo scorso novembre afferma che il numero di non obiettori è congruo rispetto al numero di aborti effettuati. Infatti, su 44 settimane lavorative, il medico abortista deve compiere meno di due aborti a settimana (cfr. R. Puccetti Il diritto all’obiezione di coscienza nelle professioni medico-sanitarie), procedura poi che dura meno di un quarto d’ora. Un carico di lavoro non solo, ahinoi, facilmente smaltibile, ma che negli anni sta sempre più diminuendo. Infatti, dal 1978, anno del varo della 194, a oggi il numero di aborti chirurgici diminuiscono e il numero di medici abortisti sostanzialmente rimane invariato. Quindi sempre meno lavoro da spalmare sullo stesso numero di non obiettori.
Nel 2013, quando si accese furiosa la caccia all’obiettore, il ministro della Sanità, Beatrice Lorenzin, in occasione della relazione sulla 194 di allora, volle chiudere le polemiche esprimendosi con queste adamantine parole: «eventuali difficoltà nell’accesso ai servizi, quindi, sono probabilmente da ricondursi a una distribuzione non adeguata degli operatori fra le strutture sanitarie, all’interno di ciascuna regione». Insomma, eventuali ritardi nella soppressione industriale dei bambini sono da imputarsi a problemi organizzativi degli ospedali, non agli obiettori. La Lorenzin, nella medesima occasione, aveva anche illustrato i risultati di un’indagine voluta dalla Camera su tutto il territorio nazionale per verificare se i medici obiettori fossero un ostacolo alle procedure abortive. Ecco cosa disse in proposito il ministro: «I dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente una applicazione efficace».
Nel 2012, il Comitato Nazionale di Bioetica, ente di consulenza del governo, redige un documento daltitolo “Obiezione di coscienza e bioetica”. In esso, dopo molte tabelle piene di numeri, così si conclude: «sulla base dei dati disponibili si vede come in alcune regioni all’aumentare degli obiettori di coscienza diminuiscano i tempi di attesa delle donne, e, viceversa, in altre regioni al diminuire del numero di obiettori aumentino i tempi di attesa, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare. In altre parole, non è il numero di obiettori di per sé a determinare l’accesso all’ivg, ma il modo in cui le strutture sanitarie si organizzano nell’applicazione della legge 194/78. Non c’è correlazione fra numero di obiettori e applicazione della legge. In sintesi: le modalità di applicazione della legge (tra cui i tempi di attesa ndr) dipendono sostanzialmente dall’organizzazione regionale, risultato complessivo di tanti contributi che, naturalmente, variano da regione e regione». Avete letto bene: per paradosso dove ci sono più obiettori le procedure abortive durano meno e viceversa. Esattamente l’opposto di ciò che ha sostenuto il Consiglio d’Europa.
Infine, è da ricordare un dato banale, ma significativo. Dal 1978 ad oggi quanti medici o ospedali sonostati trascinati in giudizio perché non avevano soddisfatto le richieste abortive delle donne? Zero. Tutti gli aborti richiesti sono stati eseguiti. Che dire poi della discriminazione che subirebbero i medici abortisti? É palesemente falsa. Anzi è vero tutto il contrario. In tutte le professioni vengono avvantaggiati coloro i quali possono offrire più servizi.
Quando il fronte pro-choice sostiene che i medici non obiettori non bastano, si fa un autogol clamoroso. Infatti, i presunti pochi non obiettori sono ricercatissimi e non di certo messi all’angolo perché devono fare tutto quel lavoro che non sono disposti a compiere i loro colleghi pro-life. E dato che alcuni ospedali non hanno medici abortisti, devono chiamarli da fuori e il medico non obiettore che viene da un’altra struttura è remunerato in modo considerevole. (per ulteriori approfondimenti, clicca qui, qui, qui e qui)
di Tommaso Scandroglio | Lanuovabq.it
Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook