Un terremoto. Non si può che chiamare diversamente la notizia secondo cui, nel Regno Unito, non verranno più prescritti bloccanti della pubertà. L’annuncio è stato fatto dall’NHS England, il Servizio Sanitario Nazionale britannico, sulla base di una revisione indipendente dei servizi per i minori di 18 anni e un forte aumento delle segnalazioni al Gender Identity Development Service gestito dal Tavistock and Portman NHS Foundation Trust, che – al centro di pesanti scandali – chiuderà definitivamente i battenti alla fine di questo mese. Questa, che lo stesso governo britannico ha presentando come una «decisione storica» – aggiungendo che contribuirà a garantire che l’assistenza sanitaria, in futuro, sarà basata su prove certe e soprattutto nel «migliore interesse del bambino» – non è però una svolta inattesa.
Al contrario, si può dire che fosse nell’aria; e non solo per il noto scandalo Tavistock, ma perché questo dietrofront sui bloccanti della pubertà si inserisce in un periodo molto particolare. Infatti, è di questi giorni l’esplosione dello scandalo dei cosiddetti “Wpath files”, ossia di file interni alla World Professional Association for Transgender Health (Wpath, appunto) – considerata la principale autorità scientifica sulla cosiddetta medicina di genere, ossia sulla transessualità e il cosiddetto “cambio di sesso” – che sono trapelati e dimostrano come i medici del settore operino noncuranti dei danni che cagiona la transizione di genere. Una cosa sconvolgente, se si pensa che quei dialoghi, avvenuti dal 2021 al 2024, riguardano la stessa Wpath che dà indicazione sugli standard, in materia di medicina di genere, che ispirano poi le linee guida di governi, sistemi sanitari nazionali, associazioni mediche, cliniche pubbliche e private.
Ma la svolta inglese sui bloccanti la pubertà, in realtà, arriva anche dopo che in Occidente molti Paesi già erano corsi ai ripari su questo fronte. Per limitarci alla sola Europa, non possiamo per esempio non ricordare come, nel maggio 2021, sia stato un altro Paese insospettabile di simpatie ultraconservatrici, la Svezia, a decidere lo stop ai bloccanti della pubertà, in quel caso ai minori di 16 anni, con la svolta che era stata ufficializzata con un comunicato del Karolinska Hospital – l’ospedale universitario nella contea di Stoccolma – che bocciava senza riserve l’idea che gli adolescenti con disforia di genere debbano essere sottoposti a procedure preliminari alla riassegnazione sessuale.
In realtà, però, in Svezia il ripensamento sui cosiddetti baby trans era in corso da tempo, se si pensa che i casi di adolescenti rinviati alle cliniche che seguono i «cambi di sesso» era in picchiata anche prima del 2021: solo nell’autunno nel 2019, per dire, la riduzione è stata del 65%, ma la battuta d’arresto si era verificata già dopo il 2017.
Anche in Paesi come la Francia, l’Australia e la Nuova Zelanda – l’ha segnalato il British Medical Journal, in un articolo al riguardo – le società mediche hanno iniziato a prendere le distanze dalla medicalizzazione precoce dei baby trans. Abbastanza clamoroso, inoltre, è stato su questo fronte anche il dietrofront della Norvegia. L’Ukom, l’agenzia norvegese per la sicurezza sanitaria, nel marzo 2023 ha diffuso nuove raccomandazioni nelle quali afferma di ritenere «sperimentali i bloccanti della pubertà, gli ormoni cross-sex e la chirurgia per bambini e giovani, determinando che le attuali linee guida “affermative di genere” non sono basate su prove e devono essere riviste» dato che «tutti gli interventi ormonali e chirurgici devono essere limitati alle impostazioni di ricerca per garantire protocolli chiari, salvaguardia e follow-up adeguato»
Oltre alle associazioni mediche – e in realtà ai grandi giornali progressisti, dal New York Times all’Economist – a farsi avanti contro i bloccanti della pubertà sono anche i cosiddetti detransitioners, i transgender cioè pentitisi del loro percorso di “cambio di sesso” e intenzionati pertanto a tornare alla loro condizione ed identità originarie. A raccontare e a rappresentare queste persone si stanno facendo avanti apposite associazioni come, in Australia, l’Lgb Alliance Australia, secondo cui serve cautela dato che «un approccio basato sulla sola affermazione per trattare la disforia di genere porta a danni irreparabili».
E in Italia? Qual è lo stato del dibattito? Purtroppo, non molto buono. Se infatti da un lato ci sono personalità autorevoli – come per esempio Sarantis Thanopulos, presidente della Spi, acronimo che sta per Società psicoanalitica italiana, la principale associazione che riunisce gli psicanalisti italiani – che denunciano i pericoli dei bloccanti della pubertà, dall’altro essi continuano ad essere somministrati. Il che, come prova anche il caso dell’Ospedale Careggi – con la procura di Firenze che, con riferimento a tale struttura, ha da poco avviato un’indagine sulla prescrizione appunto di farmaci per minorenni con disforia di genere – rischia di essere assai problematico, tanto più se avviene o fosse avvenuto senza seguire fino in fondo iter e protocolli.
Inoltre, non va dimenticato come nel nostro Paese continui ad essere disponibile e presente la carriera alias che, oltre ad essere illegale, veicola quella mentalità fluida e quell’approccio affermativo di genere verso cui, ormai, perfino certe sigle arcobaleno (come la citata, australiana l’Lgb Alliance) sollevano le loro perplessità. Non resta pertanto che augurarsi che l’epocale svolta inglese sui bloccanti la pubertà faccia scuola, e arrivi anche nel nostro Paese a bloccare quelle derive gender che danni incalcolabili, ahinoi, possono fare sui più giovani.
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