Le conseguenze sulla politica interna israeliana della strage di Hamas e della guerra a Gaza. Per l’analista e fondatore di Ipcri il premier, unico a non scusarsi fra le massime cariche, è il “responsabile ultimo” di quanto successo e sta crollando nei sondaggi. Ma tutto il Paese dovrà affrontare “le fondamenta” sulle quali ha costruito il consenso e il potere. Intelligence ed esercito, trasformati in forza di polizia in CIsgiordania, colti impreparati.
Gerusalemme (AsiaNews) – Arriverà il giorno “della resa dei conti” per quanto è successo e il premier Benjamin Netanyahu “sarà ritenuto responsabile del collasso completo dei nostri sistemi di difesa”. Tuttavia, ancora più delle responsabilità politiche e militari “credo fortemente” che il Paese dovrà affrontare “le fondamenta concettuali e la filosofia” su cui Bibi “ha costruito i suoi anni al potere”; a partire dalla questione centrale “dell’occupazione di villaggi e cittadine in Cisgiordania” col pretesto di “soddisfare presunte esigenze di sicurezza”. Per Gershon Baskin, attivista politico israeliano, fondatore di Ipcri (Israel Palestine Creative Regional Initiative) ed editorialista del Jerusalem Post, fra i massimi esperti del conflitto israelo-palestinese, in questa fase a dettare l’agenda è la guerra. Un nuovo confronto col suo carico di vittime, shock emotivo frutto dell’azione di Hamas che è penetrata in territorio israeliano seminando morte e desiderio di reazione, o vendetta. Ma verrà un tempo non troppo lontano, spiega ad AsiaNews, in cui gli eventi di queste settimane determineranno anche la futura leadership di Israele.
Indebolire Hamas a Gaza, negare a Fatah un ruolo di interlocutore per giustificare la paralisi della diplomazia e il congelamento del processo di pace e della soluzione dei due Stati, ormai dimenticata, sono risultati funzionali a progetto politico. In realtà, spiega l’intellettuale israeliano, Netanyahu era interessato “a controllare il territorio” avallando, se non favorendo l’espansione delle colonie senza alcun interesse a mediare per un risultato condiviso, con la nascita “di uno Stato palestinese” accanto a quello israeliano. “Ma è anche il popolo” dello Stato ebraico, avverte, che “deve capire che non può continuare ad occupare un altro popolo” per oltre 50 anni e “aspettarsi di raggiungere la pace” dopo averlo “soggiogato e segregato” così a lungo.
Tuttavia, qualcosa sembra cambiato dopo l’attacco del 7 ottobre: una larghissima maggioranza di israeliani, pari al 94%, ritiene il governo e il premier responsabili del collasso dei sistemi di difesa, che hanno consentito ai miliziani di Hamas dalla Striscia di penetrare la frontiera e colpire al cuore il Paese, facendo strage di civili. Inoltre, il 67% degli interpellati è convinto che il fallimento di tutta la struttura dell’intelligence e dell’esecutivo è “di gran lunga maggiore” rispetto a quanto avvenuto nell’ottobre del 1973 all’origine della guerra dello Yom Kippur. La bocciatura delle massime cariche politiche e istituzionali emerge da un sondaggio elaborato la scorsa settimana dal sito web Walla, che conferma un clima di sfiducia verso l’esecutivo pur in un momento in cui l’opinione pubblica si mostra compatta verso l’esterno. Per quanto riguarda il primo ministro, per il 56% degli israeliani dovrebbe rassegnare le dimissioni alla fine della guerra, incluso un 28% di elettori di destra, mentre il 52% vuole la cacciata del ministro della Difesa Yoav Galant.
Il tracollo nel consenso non riguarda solo il capo del governo, ma l’intera coalizione a partire dal principale partito, il Likud, che vedrebbe i propri seggi alla Knesset (il Parlamento israeliano) pressoché dimezzati. A guadagnare è la formazione “Unità nazionale” guidata da Benny Gantz – entrato nel governo di emergenza – che passerebbe dagli attuali 12 seggi a 41, col suo leader – ed ex ministro della Difesa e capo di Stato maggiore – indicato dal 48% come figura più indicata per la gestione del conflitto con Hamas. Un dato di gran lunga migliore rispetto al 29% raccolto da Netanyahu; egli è anche sotto esame per la gestione della formazione dell’esecutivo di unità, perché avrebbe impiegato troppo tempo – cinque giorni per accettare la proposta di Gantz, mentre resta escluso il capo dell’opposizione Yair Lapid – a formare il gabinetto di guerra.
Quello che resta nel Paese è la memoria del massacro nel sud a opera dei miliziani (o terroristi), che hanno superato i confini e colpito anche civili inermi, oltre ai soldati. E ancora, la guerra che ha travolto i palestinesi e si è concentrata nella Striscia, dove si sono verificate violenze altrettanto gravi come il missile sull’ospedale cristiano a Gaza, la cui matrice resta incerta e attorno al quale prosegue il rimpallo di responsabilità fra Israele, Hamas e Jihad islamica. “Non c’è nessuno spazio di dialogo fra Israele e Hamas” commenta Baskin, perché si è consumato “il più importante attacco terroristico nella storia del Paese” originato dalla “breccia nei confini”, anch’esso un unicum, e “tutto questo ha creato un trauma enorme nella popolazione”. Su questo si dovrà “fare i conti” e “ne pagheremo le conseguenze”. Tuttavia, per gli stessi palestinesi si è consumato il peggior trauma degli ultimi 75 anni con Hamas che “li ha riportati al punto iniziale, azzerando i progressi e tutto è stato cancellato” a livello diplomatico e istituzionale. “Vi è poi da considerare – avverte – il disastro umanitaria a Gaza, frutto delle azioni di Hamas sul popolo palestinese. Stiamo vivendo le conseguenze delle azioni dei governi e delle leadership, poco è cambiato dal 1967 a oggi”.
Nei giorni scorsi Yedioth Ahronoth, fra i più seguiti giornali israeliani, titolava la “Debacle dell’ottobre 2023” paragonando la breccia di Hamas all’offensiva egiziana e siriana del 1973, conclusa dopo settimane di conflitto con le dimissioni dell’allora premier Golda Meir. Una cacciata che ha messo fine alla sua carriera politica e all’egemonia del partito laburista di centro-sinistra. Oggi potrebbe accadere lo stesso per la destra del Likud, che domina da anni il panorama politico nazionale. “Netanyahu – spiega il fondatore di Ipcri – è direttamente responsabile del collasso del sistema: abbiamo speso oltre un miliardo di dollari per costruire un muro di difesa con Gaza e i più sofisticati sistemi elettronici di controllo e di sorveglianza” ma Hamas li ha saputi “abbattere con qualche drone e alcune granate”. Assieme al capo del governo sono finiti sul banco degli imputati anche i vertici di esercito, Difesa e le agenzie di intelligence (Shin Bet) che “devono pure loro pagare il prezzo”, ma l’unico a non essersi ancora scusato pubblicamente è solo il primo ministro, che è peraltro “il responsabile ultimo” e dovrà “renderne conto”.
Nell’ultimo decennio sono sorte decine di postazioni (almeno 26) dell’esercito in Cisgiordania e le forze di difesa israeliane sono, di fatto, il corpo di polizia nei Territori occupati, mentre Gaza è rimasta “scoperta”, osserva Baskin. Per quanto riguarda la Striscia “non vi erano preparazione e controlli adeguati, uomini addestrati ed equipaggiati” per fronteggiare una invasione. “La crisi ha fatto breccia nei confini” mentre le forze che avrebbero dovuto garantire la sicurezza delle frontiere “sono state formate per fare altro, per fungere da polizia” in Cisgiordania e “per proteggere i coloni” accusa l’esperto. “Ecco, questo è diventato l’esercito nell’ultimo anno con militari e ufficiali seduti dietro a video e schermi a fare lavoro di intelligence. Almeno 8200 unità, ma dove erano finiti – si chiede in conclusione – il 7 ottobre, invece di sorvegliare e proteggere la nazione”.
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