Una su tre vittime di violenza domestica in Australia è un uomo. Nella maggior parte dei casi si tratta di un uomo maltrattato dalla sua partner, donna. Il che si spiega con il fatto che la maggior parte delle coppie è eterosessuale.Si tratta di conviventi, fidanzati, mariti che dalle loro “dolci” metà ricevono pugni, graffi, morsi o calci. Altre fanno volare piatti, c’è chi per ferire si arma di tacchi a spillo, chi preferisce imbracciare il tubo di metallo dell’aspirapolvere, chi minaccia con un coltello e chi invece affila la lingua per trafiggere con le parole. Anche a letto le femminucce sono capaci di far del male: rapporti sessuali non consensuali, umiliazioni e gravidanze con l’inganno. Non mancano i ricatti, del tipo: “se mi lasci non ti faccio vedere i bambini” o “giuro che mi ammazzo”. E le false accuse di abuso per ottenere la custodia dei figli dopo la separazione impedendo all’ex marito di fare il padre.
Sono sofferenze silenziose.Storie che rimangono chiuse dentro i muri di casa, perché là fuori è difficile trovare qualcuno che ti creda se porti i pantaloni e dici di essere menato da una donna. Vuoi per vergogna, vuoi per mancanza di informazioni e servizi, che un uomo denunci una violenza subita in casa è tre volte meno probabile rispetto all’altro sesso. Un tempo anche loro, le donne, erano implicitamente scoraggiate a venire allo scoperto da una società ancora impreparata. Poi però ci sono stati i movimenti degli anni Sessanta e Settanta che in Australia, così come in Italia, in America, e altrove, hanno reso pubblico il dramma privato delle donne picchiate, stuprate, tenute in ostaggio dai propri mariti. È stato riformato il diritto di famiglia, e gli stati hanno introdotto leggi e servizi ad hoc. La società nel tempo si è dotata di un discorso sulla violenza maschile che fa si che oggi un livido su un volto femminile desti subito sospetto. “Sarà che lui la picchia?” Se invece il livido è su un volto barbuto chi va a pensare sia la fidanzatina la responsabile?
Mancano le narrazioni e i riferimenti culturali sulla violenza in gonnella, e il movimento per i diritti maschili non è ancora ben strutturato. La violenza femminile sugli uomini non viene presa sul serio e suscita ilarità (avete sorriso mentre leggevate di tacchi a spillo e manici dell’aspirapolvere usati come armi?). Capita che anche la polizia si metta a ridere davanti a un uomo che chiede aiuto per essere salvato dalle percosse della moglie. Lo stereotipo dell’uomo violento e la donna vittima sopravvive nei tribunali, nell’intervento degli assistenti sociali, nelle forze dell’ordine.
Poche sono le realtà alle quali questi uomini feriti, nel corpo o nell’animo, si possono rivolgere. Una linea telefonica di ascolto e consulenza su problemi relazionali, qualche raro centro anti violenza che accoglie anche uomini e qualche altrettanto raro gruppo di terapia per abusanti e vittime di ambedue i sessi. Poca cosa in confronto ai servizi rosa. C’è però chi lavora affinché questo “gender gap” venga finalmente colmato. Non in un’ottica di rivalsa togliendo alle donne per dare agli uomini – visto che, tra l’altro, se una vittima su tre è un uomo, due su tre rimangono donne. Ma piuttosto con interventi comprensivi per incidere sul fenomeno nel suo insieme e non su uno solo dei generi colpiti. Un approccio basato sulla presa d’atto che il nocciolo della questione è la relazione umana che lega uomini e donne, interdipendenti tra loro.
Questa la visione della campagna One in Three, un gruppo di pressione composto da ricercatori, operatori sociali, insegnanti, psicologi, educatori ed esperti di diritto. Uomini e donne che nel 2009 si sono uniti per una questione di integrità morale e intellettuale: riconoscere che un crescente numero di studi indicano che gli uomini sono una cospicua parte delle vittime di abusi e violenza familiare. A fare da detonatore dell’iniziativa è stata l’introduzione di un piano d’azione governativo che già a leggere il titolo provocava l’orticaria a chi si spende per l’uguaglianza di genere: “piano per la riduzione della violenza domestica contro le donne e i loro bambini”. “Il documento ignora completamente tutte quelle forme di abuso in cui il soggetto violento è una donna, che la sua vittima sia un uomo, un’altra donna o un bambino. A fronte di centinaia di studi che dimostrano che anche gli uomini subiscono violenza, non si può più continuare a interpretare il fenomeno con l’approccio femminista di genere che attribuisce la causa della violenza al patriarcato” spiega Greg Andresen, leader della campagna, intervenuto nel forum nazionale per la salute maschile che si è tenuto a Brisbane a fine ottobre. “Bisogna affrontare il problema alla luce dei fattori sociali che favoriscono la violenza: per esempio l’abuso di droghe e alcol, problemi di salute mentale, l’essere cresciuti in famiglie e ambienti violenti, situazioni di stress tipiche delle famiglie più povere, come per esempio la perdita del lavoro”, aggiunge.
Greg e i suoi colleghi sono specialisti in azioni di lobbying: compilano relazioni per le istituzioni, presentano le loro istanze ad audizioni parlamentari, si intrufolano nelle consultazioni pubbliche e scrivono lettere ai ministri. Qualche frutto già è stato raccolto. Un anno fa, la commissione permanente sulle questioni sociali del Governo del Nuovo Galles del Sud ha pubblicato un importante rapporto, il primo in cui si riconosce l’esistenza di vittime maschili, categoria verso la quale si dovrebbe, sempre stando al documento, rivolgere particolare attenzione, come per le comunità aborigene, gli anziani e i diversamente abili. Non solo. Il rapporto riconosce le barriere che queste vittime incontrano per denunciare e ricevere assistenza, e raccomanda di sopperire alla mancanza di servizi a loro dedicati. Una prima azione concreta in questo senso è già stata avviata: la possibilità, prima riservata alle sole donne maltrattate, di accedere a un contributo per le spese d’affitto, da qualche mese è accessibile a tutti, senza distinzione di sesso.
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