Sono sempre di più i migranti che, dopo anni di lavoro in Italia, decidono di tornare nel proprio Paese d’origine. Si tratta di un successo individuale e collettivo, ma le sfide non mancano.
Sabato scorso a Torino l’associazione di solidarietà e cooperazione internazionale Lvia, la cui sigla sta per Associazione Internazionale Volontari Laici, ha organizzato un seminario dedicato al tema delle migrazioni di ritorno, un fenomeno crescente, ma lontano dai riflettori.
Quando si parla di migrazioni è facile limitarsi a immaginare il percorso che va da sud verso nord, dalla sponda africana a quella europea del Mediterraneo, in un flusso che viene spesso raccontato come continuo, inarrestabile e impossibile da gestire. Tuttavia, esiste anche un’altra via, sempre più ampia e quindi sempre più significativa, ed è quella di chi, dopo anni spesi in Europa, decide di intraprendere il percorso nella direzione opposta e di ritornare nel proprio Paese d’origine.
Forse spinto dalle difficoltà economiche italiane e dal suo mercato del lavoro, il numero dei “migranti di ritorno” sta aumentando, anche se, come racconta Silvia Lami, che per conto di Lvia segue i progetti in Senegal e in particolare si occupa delle migrazioni di ritorno, «il rientro non è mai una scelta semplice».
Esiste un identikit preciso dei “migranti di ritorno”?
«Sono coloro che dopo un lungo soggiorno in un Paese di emigrazione, come per esempio l’Italia, decidono di tornare nel Paese di origine. Parlare di “migrazioni di ritorno” significa vedere le migrazioni non a senso unico, non solo come flussi di arrivo verso l’Europa e in particolare verso l’Italia nel nostro caso, ma come mobilità transazionale in entrata e uscita dall’Europa».
Che cosa significa per un individuo? Come viene vissuto un eventuale ritorno?
«Conviene partire dalla migrazione senegalese, che è quella su cui io lavoro e sulla quale sto portando avanti un progetto in questo momento: ecco, per moltissimi migranti il ritorno è un obiettivo sin dal momento della partenza. La possibilità di tornare, quindi, è spesso un successo. Tuttavia è anche una scelta di coraggio, perché tornare significa scommettere sulla possibilità di investire nel proprio Paese, di lanciare un’impresa nel contesto da cui si è partiti. Significa però anche avere la possibilità di vivere vicino alla propria famiglia, ai propri cari. Insomma, la scelta del ritorno è sia coraggiosa, perché significa lasciare quello che si è trovato in Italia per tornare, ma spesso equivale anche a un successo dell’esperienza migratoria, perché il migrante che sceglie di tornare ha la possibilità di realizzarsi nel proprio Paese di origine, ha capito che quello è il luogo in cui la sua realizzazione diventa possibile».
Come si aiuta questo percorso?
«In questo momento in Senegal, in particolare nella regione di Thiès, stiamo realizzando una serie di interviste e di incontri con i migranti per conoscerli, per raccogliere dei dati, per capire quali sono i bisogni effettivi e le difficoltà che incontrano. Le persone che hanno vissuto a lungo fuori dal Paese di origine spesso incontrano difficoltà di orientamento nel contesto socioeconomico di partenza, o magari soltanto difficoltà burocratiche nell’avvio dell’impresa. Possiamo quindi parlare di tre fasi di supporto: la prima è la conoscenza, seguita poi da una fase di formazione generale nella gestione dell’impresa, nella gestione economica e specifica nel settore di intervento dei progetti di impresa dei migranti e che si svilupperà nei prossimi mesi. Infine ci sarà una fase di accompagnamento e finanziamento delle imprese dei migranti di ritorno».
Ci sono anche azioni che vengono compiute in Italia?
«Sì, da questo capo del percorso stiamo organizzando eventi di sensibilizzazione e di informazione con i migranti che ancora sono in Italia ma che stanno preparando il loro ritorno e che sarebbero magari interessati a inserirsi nel nostro percorso in Senegal o comunque ad avviare una riflessione sull’idea del ritorno e sulla sua preparazione».
Il Senegal ha una situazione politica stabile, tanto che negli anni è stato definito addirittura un modello. Ecco, per poter tornare nel proprio Paese, una persona ha bisogno di trovare condizioni sociali e politiche che lo consentano. Quanto pesa questa valutazione?
«È un aspetto molto importante. Per ora stiamo parlando di ritorno in Senegal proprio perché è un Paese stabile dal punto di vista politico e sociale, nel quale il ritorno è senza dubbio possibile. Ci sono però altre realtà e altri contesti in Africa nei quali il ritorno è molto più difficile, se non impossibile. Occorre fare un’analisi puntuale per capire dove si possono avviare progetti di questo tipo e dove invece va ragionato su altri modelli, ma per farlo è necessario coinvolgere le associazioni dei migranti che lavorano sui nostri territori. Per fortuna, la nuova legge italiana sulla cooperazione dà un ruolo centrale alle associazioni dei migranti e l’idea è proprio di lanciare progetti che lavorino al tempo stesso nei Paesi di origine e con i migranti che abitano in Italia, per fare in modo che si conoscano entrambi i contesti».
Come vengono accolti progetti simili da parte del governo italiano?
«Bene, basti pensare che il nostro progetto è finanziato dal ministero degli Esteri del governo italiano. La sede di Dakar della cooperazione italiana ha deciso di credere in questo progetto e di vedere la possibilità di avviare una prima sperimentazione. Per ora il sostegno al ritorno viene finanziato all’interno di un programma di emergenza di soli 9 mesi, ma c’è l’idea concreta di creare dei progetti futuri, quindi di dare delle linee programmatiche che vengano prolungate nel tempo e replicate in altre regioni. Insomma, per ora abbiamo trovato disponibilità e collaborazione da parte del governo italiano».
Immagine di Lvia
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