Un corto circuito, inevitabile per chi oltre a essersi occupato per anni della questione curda in generale (e del Rojava in particolare) è anche socio sostenitore della benemerita organizzazione umanitaria.
Questo ho percepito leggendo il rapporto di Amnesty International sulle – per me ancora presunte – violazioni dei diritti umani, compresi omicidi e torture, opera di esponenti delle FDS (le Forze Democratiche Siriane, un’alleanza di curdi, arabi e assiro-siriaci dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est) nei campi di detenzione di al-Hol e di Roj. Dove sono ancora rinchiusi (controllati, segregati?) migliaia di esponenti di Daesh (qualcuno magari solo presunto).
Per quanto mi riguarda ero al corrente della difficile, drammatica, insostenibile situazione di al-Hol nel cantone di Hesekê. Già quattro anni fa venivano avanzati sospetti sui metodi delle forze a guardia del campo (la sicurezza interna – Asayish – e le FDS). Da ulteriori indagini si appurava come le violenze ai danni delle donne internate fossero opera per lo più di altre donne, in massima parte di origine “russa” (non meglio precisata – forse da interpretare come “cecene” o comunque caucasiche) che si ostinano a difendere, applicare e imporre la legge islamica. Punendo duramente quelle che non si sottopongono alla sharia. Inoltre, queste “russe” riceverebbero cospicui finanziamenti dall’esterno, anche se per ora non è stato possibile individuare i canali.
Questo almeno è quanto aveva potuto verificare un corrispondente dell’agenzia Hawar che aveva visitato il campo. Ovvero: le donne venivano – e probabilmente vengono ancora – effettivamente punite, maltrattate, picchiate, ma appunto dalle donne rimaste devote a Daesh e alla legge islamica. Non dai guardiani del campo. *
Da tempo l’AANES (Amministrazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est) chiede che i prigionieri vengano giudicati da un tribunale internazionale o almeno che i vari stati di provenienza dei miliziani jihadisti se li riprendano insieme alle loro famiglie. Ma senza ricevere risposta. Meglio evidentemente (anche per gli Stati europei da cui una parte proviene) lasciarli qui parcheggiati. Non solo. I curdi hanno liberato molti di questi miliziani, in particolare quelli arabi di nazionalità siriana dopo aver condotto trattative con i capi tribali i quali si sono impegnati a impedirne un nuovo arruolamento in Daesh.
Per ragioni evidenti non possono adottare la medesima soluzione per ceceni, francesi, iracheni, britannici etc. I quali, se rimessi in circolazione, forse non avrebbero altra alternativa che tornare a integrarsi in qualche formazione jihadista.
A chiunque non sia in malafede dovrebbe apparire scontato che ai partigiani curdi – rivoluzionari e libertari – la funzione di secondini va alquanto stretta. Coerentemente con i principi umanitari del Confederalismo democratico, i Curdi in Rojava avevano già abolito la pena di morte. Perfino per i tagliagole seriali di Daesh/Isis.
Non arrivava quindi inaspettata nell’ottobre 2020 la notizia che avrebbero potuto tornare in libertà circa 25mila internati siriani (di cui 17mila minori) del campo di al-Hol. Seduta stante per amnistia generale. Un modo per alleggerire la situazione – divenuta soffocante, invivibile – del campo e dare una risposta positiva alle richieste delle comunità arabe locali. O almeno questa sarebbe stata l’intenzione, stando alle dichiarazioni di Elham Ahmad, esponente del Consiglio democratico siriano.
Hol veniva definito un “pesante fardello” per l’AANES. Per cui, aveva spiegato Elham Ahmad “non si sente obbligata a pagare ancora somme esorbitanti per fornire cibo e ogni cosa necessaria a queste persone”. Per non parlare dei gravi problemi che quotidianamente turbano la vita del campo”. E non si parlava solo di risse o litigi, ma di “stupri e uccisioni”.
Da qui il progetto, poi realizzato solo in parte, di cominciare a svuotare al-Hol degli internati di cittadinanza siriana. Rinviati per contingenti nei loro villaggi su richiesta delle autorità tribali (dopo i disordini scoppiati a Deir-ez-Zor) per rendere il campo almeno vivibile. Inoltre “non sarebbero più sotto la responsabilità dell’AANES e quelli che vi rimarranno saranno considerati detenuti a tutti gli effetti”.
Polemicamente vorrei qui ricordare il risalto dato dai siti filo-Assad (rosso-bruni, fascisti, neostalinisti…) agli scontri tra le YPG e le popolazioni arabe appoggiate da Damasco. Parlandone come di una rivolta popolare spontanea contro la prepotenza dei curdi e dei loro alleati. Ora si scoprono gli altarini: i tribali rivolevano soltanto indietro i loro compaesani arruolatisi – volontariamente o meno – nelle bande integraliste. Umanamente anche comprensibile (volerli riportare a casa intendo, non certo integrarsi in Daesh), ma politicamente alquanto discutibile. Già prima del 2020 oltre 4mila internati siriani avevano potuto lasciare il campo di Hol e quello di Deir-ez-Zor, dietro la garanzia – fornita sempre da sceicchi tribali – che non si sarebbero arruolati con Daesh.
Si calcola che nel campo vi siano almeno 30mila iracheni (tra cui 20mila minori) di cui il governo iracheno sembra volersi disinteressare totalmente (nonostante la richiesta dell’AANES di poterli rimpatriare) e almeno altri diecimila stranieri di diverse nazionalità (tra cui 7mila minori).
Dato che la comunità internazionale da tempo va manifestando un sostanziale disinteresse per la sorte di questi prigionieri (tra i membri di Daesh/Isis non mancano nemmeno quelli con cittadinanza europea), in alcune occasioni l’AANES aveva espresso l’intenzione di processarli direttamente in proprio. Oppure che venisse istituita una Corte di Giustizia internazionale con il contributo – almeno – dei Paesi della coalizione anti-Isis.
Già allora tra omicidi e tentati omicidi (in genere all’arma bianca per mano delle donne dei miliziani di Daesh), stupri, incendi e abusi di ogni genere, la situazione nel campo era diventata insostenibile. E in seguito non ha potuto altro che peggiorare.
Un degrado ancora peggiore di quello generale, caratterizzato da sistematiche e molteplici violazioni dei diritti umani, operate praticamente da parte di tutti i soggetti coinvolti nel conflitto siriano.
Così almeno stabiliva, sempre nel 2020, un rapporto della Commissione internazionale indipendente di inchiesta sulla repubblica araba siriana. Rapporto che però accusava – a mio avviso ingiustamente – soprattutto le Forze democratiche siriane (FDS) per la lunga detenzione dei miliziani catturati, compresi quelli di Daesh. Non prendendo in considerazione il fatto che i loro governi mostravano chiaramente di non volerli rimpatriare (inevitabile notare la sintonia con il recentissimo rapporto di A.I.).
Mazlum Abdi, comandante delle FDS, aveva contestato alcune delle affermazioni contenute nel rapporto del 2020 in quanto sembravano “ignorare la complessità di dimensioni internazionali del campo di Hol”. Un campo che al momento dell’inchiesta ospitava da parecchi mesi forse 65mila persone “provenienti da decine di paesi differenti (oltre una cinquantina nda), tra cui migliaia di membri di Daesh e le loro famiglie catturati dalle FDS”.
Ma in buona sostanza, come era stato strutturato il campo di Hol?
Al-Hol è diviso in otto zone. Nella zona uno, due e tre si trovano persone di Mosul che avevano disertato da Daesh ancora nel 2014, mentre nella zona quattro sono stati raccolti soprattutto sfollati siriani.
Invece jihadisti e loro familiari sono rinchiusi nelle zone cinque, sei e sette.
Altri jihadisti – in particolare gli stranieri – nel Muhajarad (la zona dei “Migranti”).
Purtroppo nel campo si era ricostituita più o meno clandestinamente l’organizzazione del califfato. Soprattutto per opera delle donne impegnate sia nell’indottrinamento dei bambini, sia nell’eliminazione di chi vorrebbe tirarsene fuori (quelli definiti “rinnegati”). Per esempio – notizia del 6 ottobre 2020 – alcune donne aderenti allo Stato Islamico avevano assassinato un rifugiato iracheno e tentato di assassinarne un altro, un barbiere (ma riuscendo, soltanto a ferirlo gravemente ).
Il gruppo si era organizzato come una vera e propria milizia per controllare, terrorizzandole, le persone rinchiuse nel campo. A peggiorare ulteriormente la situazione, con l’invasione turca del 2019 i tentativi di evasione si sono moltiplicati. Almeno 700 (in buona parte riusciti) tra il 2029 e il 2020 (dati forniti dalle forze di sicurezza presenti nel campo).
Parlando di evasioni dei detenuti jihadisti in Siria, ci tocca ricordare l’assalto di due anni fa al carcere di Sina (pare propiziato da Ankara e forse anche da Damasco) per consentire la fuga di jihadisti (presumibilmente legati a formazioni filo-turche). Un attacco – ricordo – che era costato la vita a centinaia di esponenti delle FDS.
Nel suo rapporto poi A.I. punta il dito sul fatto che qui vi sarebbero anche donne ezide fatte prigioniere dallo Stato islamico. Come se questo dipendesse dai curdi, già in grande difficoltà nel controllare la riorganizzazione (grazie soprattutto alle mogli dei combattenti di Daesh) dell’organizzazione islamista. Ma forse Amnesty International non ha colto un fatto drammatico.
I prigionieri ezidi (soprattutto donne) nel campo non possono contattare le forze di sicurezza (se non a proprio grave rischio e pericolo) in quanto la stragrande maggioranza degli internati è comunque legata all’Isis (i curdi distinguono tra appartenenza “attiva” e quella “passiva”, la quale non viene considerata un reato) che all’interno del campo ha in qualche modo saputo ricostituirsi (anche procurandosi armi). Da parte loro i curdi si impegnano quotidianamente (diciamo che “fanno gli straordinari”) per ritrovare le donne ezide sequestrate da Daesh e liberarle.
Anche recentemente (marzo 2024), proseguendo nell’operazione Umanità e Sicurezza, le YPJ (Unità di protezione delle donne) in collaborazione con la Casa Ezida avevano potuto individuare, liberare e riconsegnare alla famiglia un’altra giovane ezida, Kovan Aidi Khourto. Catturata da Daesh, era ancora trattenuta contro la sua volontà nel campo di al-Hol. Come lei sono già alcune centinaia le donne egide liberate dai combattenti curdi.
Nel loro comunicato le YPJ informano che “rinnoviamo il nostro impegno irremovibile a difendere e liberare le donne , in particolare le donne egide dalla schiavitù dello Stato islamico e nell’aiutarle ritrovar le proprie famiglie”.
Per ora concludo, ma è ovvio che il rapporto di A. I. merita un approccio più approfondito. Molto più di queste mie prime considerazioni “a caldo!”. Per cui sicuramente bisognerà ritornarci sopra.
Gianni Sartori
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