Alte mura, anonime, capaci di trattenere e raccogliere la vergogna che spesso si nasconde nel suo interno. Un susseguirsi di celle, uffici, corridoi, sezioni, dove nei loculi di pochi metri quadrati scontano la pena troppi esseri umani e tra questi molti sono quelli ancora in attesa di giudizio, molti coloro per i quali il carcere non può essere la soluzione immediata rispetto ad un arresto per futili motivi, come quello di un furto di motorino. Ha trent’anni l’uomo che ha rubato il motorino, ed è stato prontamente rinchiuso nel carcere di Enna. Qui per un lungo ed interminabile mese è stato ripetutamente oggetto da parte dei compagni di cella di sevizie, gli avrebbero gettato addosso dell’acqua bollente, spalmato sulle ustioni detersivi, sale, aceto, intimandogli di tacere perché altrimenti le ritorsioni avrebbero colpito lui e i suoi familiari.
Sono state le urla di sua madre a squarciare il velo del silenzio omertoso, quando durante un colloquio si è accorta di una evidente tumefazione vicino all’orecchio del figlio. Com’è possibile che tutto questo possa accedere? Sono molti gli interrogativi che interpellano gli addetti alla custodia, gli educatori, il personale sanitario. Dov’erano? Per un mese nessuna ha visto e sentito nulla. Questo è solo uno dei numerosi drammi che quotidianamente si consumano nel contesto di strutture che forse, salvo qualche rarissima eccezione, sembrerebbero raccogliere l’indifferenziato umano. Giovani, meno giovani, anziani, qualcuno ha ormai varcato la soglia degli 80 anni. Eppure, la logica reale della cosiddetta macchina detentiva è quella del contenere le persone senza stabilire relazioni con esse, con le loro esistenze e i loro destini. L’esecuzione della pena detentiva sembra essere la consumazione di un tempo stabilito. Un tempo consumato, non vissuto e al termine del quale il condannato dovrebbe essere restituito alla libertà, rieducato. Il carcere è sempre più la cartina di tornasole su come la società sta scegliendo di affrontare i suoi problemi sociali: incarcerarli e non pensarci più. Italo Calvino, nelle città invisibili vede, immagina Marco Polo che dai luoghi periferici di un grande regno in disfacimento, fornisce al sovrano Kubblai Khan descrizioni di città, simbolo della complessità e del disordine della realtà e che non hanno luogo in nessun atlante. Città invisibili, come sono spesso le carceri. Invisibili, come le troppe vite che si spengono fra le mura, nel silenzio di pochi istanti, sufficienti per utilizzare un lenzuolo ed appendersi alle sbarre di una cella.
I numeri forniti dal dossier “Morire in carcere” di Ristretti Orizzonti sono inquietanti: dal 1 gennaio al 21 luglio 2015 coloro che si sono tolti la vita sono 24, uniti a quelli morti per altre cause non chiare, overdose, assistenza sanitaria disastrata sono complessivamente 62. Dal 2000 ad oggi 2.434. Le cause che spingono una persona detenuta a togliersi la vita sono numerose e si cela sempre il vuoto, la disperazione, una estrema richiesta d’aiuto. Le maglie intricate dell’esistenza umana sono costituite da mescolanze di ansie, instabilità. In una cella, il pensiero inopportuno, la spinta inarrestabile delle circostanze, l’interpretazione errata della realtà: meccanismi da cui nessuno può dire di essere immune. Il carcere amplifica. Ci sono fiumi di inchiostro sull’argomento dei suicidi in carcere. Resta in corso d’opera il dramma di episodi che si ripetono ritualmente; resta la responsabilità di chi ha le competenze socio sanitarie della presa in carico della persona detenuta al suo ingresso in un mondo estremamente complesso ed opprimente, dell’ASL, perché i colloqui con la persona detenuta non devono essere burocratizzati, come la prassi per l’espletazione di una pratica. E sarebbe utile sapere quanti operatori medici e dell’ambito psico sociale lavorano nelle carceri e per quante ore, così come quanto educatori rispetto alla popolazione detenuta di ogni singolo carcere. A Parma, ad esempio, un’educatrice ogni 80 detenuti. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, dopo i due suicidi avvenuti nel giro di 24 ore nella settima sezione del carcere romano di Regina Coeli ha evidenziato un punto fondamentale: «l’obiettivo di chi ha compiti di custodia legale non è togliergli le lenzuola bensì togliergli l’intenzione di ammazzarsi. E questo lo si fa costruendo un carcere aperto, umano, non asfissiante».
In uno degli ultimi incontri avuti con i detenuti della sezione AS1di Parma, nell’ambito del laboratorio narrativo “Etica e Legalità”, venivano condivise queste righe, per una sempre più umanizzazione della pena: «Una detenzione scontata con modalità legali è il presupposto indispensabile affinché lo Stato possa chiedere il rispetto delle sue regole a chi queste regole ha infranto. Il carcere, come la scuola, l’ospedale, è una struttura pubblica e deve avere ambienti sani, personale idoneo, preparato ad affrontare il compito che la legge assegna. La battaglia da combattere è soprattutto culturale. Occorre investire soprattutto in risorse umane, per un nuovo rapporto con la persona detenuta». Non occorrono chissà quali riforme rivoluzionarie. La Costituzione lo impone, le leggi ci sono. In senso contrario le carceri verrebbero ad essere luoghi in cui c’è la tortura. Non in senso generico o metaforico. Condizioni permanenti di invivibilità, diritti umani violati in diversi modi configurerebbero una tortura di Stato. Ai volontari delle nostre chiese che operano nelle carceri, ai ministri di culto e a quanti con i quali collaboriamo nell’ “amministrare la sofferenza” (si veda in proposito “Prigioni. Amministrare la sofferenza” di Pietro Buffa, edizioni Gruppo Abele) l’impegno ad essere vigili sentinelle e voci critiche per i diritti dei reclusi.
Foto “Barbed wire B&W” by Tiago Fioreze – Own work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.
Giuseppe La Pietra
da: Riforma.it/a
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