Come ricordava Vitaliano Trevisan, alcuni paesaggi del Basso vicentino sono letteralmente “mozzafiato”. Soprattutto per la puzza che fuoriesce da centinaia di allevamenti intensivi.
Sarà che con il caldo questa si fa maggiormente sentire, ma la cosa mi è tornata in mente vagando in bicicletta per le lande desolate dove i campi di sorgo e soia si coniugano con migliaia di capannoni industriali (interrotti da qualche sporadica “villa veneta” senza soluzione di continuità: una macedonia caratteristica delle “fabbrica diffusa” del Nord-est).
E mi è tornata alla mente anche una delle ultime, tra le più drammatiche per numero di abbattimenti, epidemie di aviaria, quella del 2017.
Non ho elementi per quantificare il numero di galline e altri uccelli d’allevamento sterminati in quella occasione: migliaia? Direi piuttosto decine di di migliaia. Forse milioni.
Avendo agito in maniera “preventiva”, la notizia venne all’epoca in parte accantonata.
Tanto per la cronaca, in una precedente situazione analoga (’inverno 1999-2000) i polli abbattuti vennero calcolati in quattro milioni e mezzo. In entrambi i casi, a mio avviso, non si tratta di un “incidente di percorso”, ma di una strage premeditata.
Per i cultori dell’antropocentrismo la domesticazione (e il suo inevitabile corollario: l’allevamento) costituirebbe una delle maggiori scoperte dell’umanità. Per gli animali questa “scoperta” ha rappresentato l’inizio di un cammino di incredibile crudeltà. Un percorso che dal secolo scorso è approdato sistematicamente alla diffusione della forma più atroce: l’allevamento intensivo.
Il momento storico che, almeno in Italia, ha segnato un cambiamento repentino del rapporto di “collaborazione” tra umani e animali – quel rapporto che si praticava da secoli (per quanto “a senso unico”) – è stato il trentennio successivo al secondo dopoguerra. In pieno “boom economico” nasceva una rivoluzione all’interno del mondo rurale, la zootecnia.
L’animale perse ogni valore intrinseco diventando oggetto di uno sfruttamento spietato, una merce da cui ottenere il massimo rendimento del prodotto con il minimo spreco di investimenti. Sostanzialmente un “semilavorato” che deve essere trasformato in prodotto finito senza alcuna considerazione per le sue condizioni di vita.
Il nostro Paese voleva recuperare le forze. Interessi diffusi ben identificabili fecero credere che privilegiare l’alimentazione carnivora significasse un apporto di elementi nutrizionali indispensabili. Chissà, forse suscitava invidia l’aspetto degli americani – meglio: statunitensi – ben pasciuti (cioè gonfiati).
La nascita del consumismo e il nuovo potere di suggestione della pubblicità contribuirono in maniera determinante al diffondersi di tale diceria.
Nel bel libro, sempre attuale, di Eugenio Turri «Miracolo economico: dalla villa veneta al capannone industriale» si racconta la morte della vecchia organizzazione rural-mezzadrile (comunque non priva di ombre e impregnata di ingiustizie: uno dei miei nonni era un “obbligato” e tanto basti) fino ad allora sopravvissuta in un Veneto culturalmente e industrialmente attardato.
Tale passaggio epocale avrebbe avuto effetti distruttivi nella società contadina, trovando i suoi nuovi simboli (idoli?) nei capannoni per l’allevamento su scala industriale soprattutto di volatili (polli, tacchini…). E maiali, naturalmente. Proprio la terra più amata da Turri, la sua Lessinia veronese, subì un pesante inquinamento a causa degli allevamenti suini intensivi.
La nuova e redditizia impresa di “allevamento razionale” (un metodo che qualche ong veneta di mia conoscenza, vorrebbe esportare di brutto in alcuni Paesi africani dove – orrore! – le galline razzolano ancora liberamente per le strade sterrate dei villaggi) era un modo di utilizzare il “brolo” che non rendeva più, riconvertendo l’attività rurale di un tempo.
Nel giro di pochi anni (talvolta, raccontava Turri, «pochi mesi») le dolci fisionomie del paesaggio veronese vecchio di secoli, magari con la villa vicina, vennero trasformate da queste edifici. Vere e proprie gabbie di tortura per migliaia di polli asserragliati dentro: «un coro roco di bestie torturate, un grido lugubre che si ripeteva uguale, monotono, ad ogni intercalato grido di gallo».
Non è un caso quindi che il virus abbia in passato colpito soprattutto il veronese. Restando al fatidico inverno 1999-2000, ben 37 casi sui 45 regionali (si parla ovviamente di interi allevamenti, non di casi singoli). Per la cronaca, gli allevamenti colpiti più importanti erano quelli di una nota (e ampiamente pubblicizzata) marca diffusa in zona.
All’epoca, le immagini decisamente agghiaccianti di tali stabilimenti industriali con il pavimento lastricato di migliaia di tacchini morti – eufemisticamente propagandati come “allevati a terra”, ma neppure in grado di muoversi per il peso e l’affollamento – furono rivelatrici del grande inganno che sta alla base del nostro modo di consumare.
Non si vuole sapere quale prezzo viene pagato dagli animali in questo delirio umano di onnipotenza: sofferenze di stabulazione (un guasto elettrico alla ventilazione può portare alla generale morte per soffocamento), alimentazione innaturale e tossica (sottoprodotti contaminati da diossine, rifiuti di ogni tipo), pratiche di tortura (castrazione, debeccaggio), uso e abuso di farmaci (la metà della produzione mondiale di antibiotici finisce negli allevamenti intensivi). Per non parlare delle ultime trovate del maltrattamento genetico come la selezione di razze speciali, tacchini con petti abnormi per poter rispondere più facilmente alle richieste dei consumatori.
Il tutto confezionato e pronto nei supermercati, condito con il falso richiamo alla tradizione, all’aia della “vecchia fattoria”, ai sapori genuini “de ‘na volta”.
Anche lasciando da parte la compassione, vien da chiedersi: abbiamo definitivamente rinunciato alla capacità di pensare e di scegliere perché così è più comodo e facile? Sicuramente abbiamo demandato ad altri il lavoro sporco dell’allevamento contro ogni natura e contro gli animali cullandoci in una voluta ignoranza.
Oggi, dopo gli ennesimi massacri, è lecito domandarsi se questo atteggiamento abbia ancora qualche giustificazione che non sia quella del profitto.
Da parte mia (oltre a ribadire la validità etica della scelta vegetariana) auspico la rapida fine di queste forme estremamente crudeli di sfruttamento. Possano diventare solo il brutto ricordo di un passato ignobile e innominabile.
Gianni Sartori
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