In una scuola materna ed elementare di Milano è stato proposto di non usare più le parole “madre” e “padre” per non offendere le persone omosessuali. Abbiamo perso il senso stesso della realtà: ora non potremmo più usare il verbo “correre” per non offendere chi correre non può?
Caro direttore,
vengo a sapere da un amico che in una scuola materna ed elementare di Milano è stato proposto di non usare più le parole “madre” e “padre” per non offendere le persone omosessuali. Ci sarebbe da sorridere, ma, forse, occorre piangere, perché tale proposta è coerente con l’attuale streaming ideologico imperante nelle elite, ma perdente tra il popolo, come abbiamo potuto constatare nell’esito delle recenti votazioni.
Ci sarebbe da piangere, soprattutto se tale ideologia fosse coerente fino in fondo. Perché, se lo fosse, tanto per fare qualche esempio, non potremmo più usare il verbo “correre” per non offendere chi correre non può; non potremmo più usare l’espressione “fare all’amore”, per non offendere chi, avendo compiuto più di novanta anni, normalmente non ce la fa più; non “mangiare” per chi ha mal di stomaco; non “bello” per chi è brutto; e così via all’infinito. Poiché ogni parola, anche se usata con ogni più buona intenzione, potrebbe offendere qualcuno, dovremmo ridurci al silenzio, se quella ideologia diventasse dilagante. E, soprattutto, verrebbe perso il senso stesso della realtà, visto che Dio stesso ha incaricato l’uomo di dare il nome alle cose. Sarebbe, in altre parole, una cosa da pazzi!
Mi chiedo come possa accadere che si sviluppino simili pazzie. Una delle cause potrebbe essere individuata nel fatto che la cultura moderna non riesce ad accettare che, oltre all’uguaglianza, possa esistere anche la differenza. Questo, forse, è l’aspetto più anticristiano del pensiero contemporaneo. Ricordo che rimasi colpito, quando scoprii che il grande Chesterton decise di entrare nella Chiesa Cattolica quando si accorse che Essa costituiva l’unico luogo in cui potevano convivere le contraddizioni della vita. L’unico luogo in cui si parla contemporaneamente di Croce e di Resurrezione; l’unico luogo in cui si venera un Dio Trinitario, che costituisce contemporaneamente il massimo dell’unità ed il massimo della differenza. L’unico luogo in cui San Paolo può esortarci ad essere lieti con chi è lieto e tristi con chi è triste, perché le differenze vanno tutte “condivise”.
Questa constatazione mi permette anche di aggiungere un’ultima osservazione, che riguarda l’interno delle comunità cristiane. I cattolici devono stare attenti a non “assolutizzare” un aspetto singolo della propria esperienza, perché l’esperienza cattolica è sempre completa e complessa nella sua semplicità. Non a caso a me è stato insegnato che le tre dimensioni della vita cristiana (cultura, carità e missione) devono essere tenute sempre assieme, pena la riduzione pericolosa dell’esperienza cristiana stessa. Se si assolutizza, per esempio, la carità a scapito della cultura, molto presto la carità si riduce a solidarismo o a volontarismo. Non dobbiamo avere paura di testimoniare l’integralità della nostra esperienza: questa integralità non solo ci permette di essere fedeli al Vangelo di Cristo, ma ci permette, anche, di rispondere efficacemente alle pazzie del pensiero contemporaneo. E anche questa è testimonianza.
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