Gli attentati di Bruxelles hanno rilanciato con urgenza la necessità di presidiare i canali di reclutamento della jihad anche in Italia, due in particolare: Internet e le carceri, principali mezzi d’”arruolamento” delle giovani leve occidentali nelle fila del terrorismo islamico.
Sono trascorsi, di fatto, solo pochi giorni da quando il dott. Donato Capece (nella foto), segretario nazionale del Sappe, Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, ha lanciato l’allarme, dopo aver visitato la struttura detentiva di Cà del Ferro, a Cremona, struttura che ha evidenziato diverse criticità, tra cui quella della cosiddetta «detenzione aperta».
In cosa consiste? Qui (ed anche altrove, il problema è comune a più centri) le celle restano aperte dalle ore 9 alle ore 18, mentre i pattugliamenti vengono compiuti in modo saltuario. Senza il presidio costante degli agenti, sono più facili e frequenti abusi, soprusi e furti. Ma non solo: «Ritengo che questo tipo di detenzione sia un grosso errore – ha dichiarato il dott. Capece – Anche perché rischia di favorire la radicalizzazione in carcere degli islamici: se i detenuti sono liberi di circolare tra di loro, è facile che il soggetto più debole venga plagiato da quello più forte. Come negli anni del terrorismo. A Cremona, del resto, è molto alta la presenza di detenuti stranieri, cioè di persone che non hanno nulla da perdere». E che, quindi, più facilmente si concedono intemperanze, violenze o gesti estremi.
Non solo: «Io ritengo che Cremona, come tanti altri istituti, sia diventata una sorta di discarica sociale – ha proseguito il segretario nazionale del Sappe –, dove giungono detenuti sfollati da altre strutture della Regione. In genere, quelli che arrivano sono i casi più disperati e riottosi alla disciplina: sono sempre i più indesiderati, infatti, ad essere allontanati. Qui, privi di collegamenti sul territorio, cercano di richiamare l’attenzione del magistrato di sorveglianza o dell’amministrazione carceraria. Come? O cercando di aggredire l’agente di Polizia Penitenziaria, il che è quasi diventato uno “sport nazionale”, oppure con gesti di autolesionismo» (suicidio compreso: Cremona, in questo senso, detiene il triste primato regionale di tentativi compiuti).
Guardando la situazione altrove, se ne può capire meglio la gravità. In Francia, i detenuti stranieri rappresentano il 18,5% del totale e sono spesso in grado di dettar legge. Come a Pontet, in Vaucluse, dove lo scorso luglio, durante il Ramadan, hanno costretto gli altri galeotti, anche non islamici, a seguire il loro stesso regime alimentare, a mangiare solo carne halal ed a rifiutare quella di maiale: «Le teorie dei Fratelli Musulmani qui sono alquanto radicate ed anche seguite dai prigionieri – si legge in un verbale della gendarmeria – Chi, tra questi, si dimostri psicologicamente più fragile diviene un bersaglio», su cui esercitare «pressioni fino a farli cedere e piegarli alla volontà dei loro compagni islamici di cella». Esattamente il rischio per ora solo paventato dal dott. Capece in Italia.
In Spagna, il regime detentivo è, invece, particolarmente duro: visite vietate – tanto quelle dei familiari quanto quelle degli imam -, nessuna comunicazione col mondo esterno. Solo così le autorità sono riuscite a tenere a bada i circa 2 mila reclusi musulmani. La jihad ha allora esplicitamente incitato i carcerati alla rivolta, affinché in qualunque modo ed «in nome di Allah», riescano a liberare ed a far uscire i loro “colleghi” musulmani.
E in Italia, cosa si aspetta a fare sul serio? (fonte: Corrispondenza Romana)
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